ti ho notata da lontano, non ho potuto non essere colpito dal tuo essere, nel semplice sostare dell’agire sapendo della possibilità d’essere notata. ho abbandonato le mie capacità premature di giudizio e ti ho vista dissolta, in mezzo a chi ti sorride e non ti capisce. sento una vibrazione sullo sterno, e colgo quell’attimo in cui sempre mi spingo in un abisso vorticoso. vedo i flussi delle tue idee dissiparsi come una nube di vapore sprecata, verso un cielo giallo, in un fresco afoso. ricopio esattamente il viso che mi ero proposto di fare in quest’occasione, richiamo all’attenzione il mio essere giovane biologicamente, mentre invecchio le mie idee per pormene di nuove quando mi sento stantio. non riesco a far camminare il fuoco, posso dare luce solo a quei momenti in cui sono fermo e mentre mi muovo sento l’esigenza di quanto spero di raggiungere, e guardo alla nostalgia di quanto abbandonato come a un operare necessario. stavolta mi muovo per comunicarti a distanza la necessità del nostro incontro; senti il mio richiamo ma ti muovi in ritardo, non potendo cogliere i miei movimenti frettolosi. sono sicuro imparerai a reagire a quest’impulsi più velocemente, notando quali sono quelle cose che ti sei lasciata andare. faccio finta di non far rumore e rievoco il ricordo di quando m’impegnai a piangere per darmi quelle sensazioni di qui ciclicamente abbisogno. sento distanze a cui non so dare nome, gioco con le espressioni; cerco sempre di confondere chi potrebbe guardarmi a mia insaputa. mi siedo al tavolo con la mia ignoranza e parliamo, cerchiamo un comune accordo che non esiste, vorrei sfogarmi nuotando. non potendo tuffarmi in nessun dove mi muovo prima rispetto ai miei impegni, per fare le cose con quella calma che non conosco e trovarmi in anticipo al mio eventuale piccolo anticipo. mi guardo in giro e non mi riconosco in niente, allora immagino la sua mano che, nel nulla buio di un qual ché inabitabile, prende la mia e immobili ci guardiamo attraverso il silenzio delle ombre. non è bastato dormire stanotte per riprendere forze, trascino i miei dubbi verso qualcosa di più astratto. oggi non è giornata per raccontarti come mi sento.

meritatamente p…

meritatamente prendo coscienza di quanto mi porto alle spalle. lascio fare contorno alle parole altrui mentre prendo posizione nel raggio dei fastidi che l’ognuno si porta sempre con sé. beviamo quello di cui qui ora disponiamo. facciamo scherno di chi non assomiglia ai nostri ideali; talvolta odiamo, con l’odio dell’insoddisfatto. a perdifiato, mi sforzo a non ripetermi; con calma poi mi rendo conto delle lacune della mia memoria e alleno il vocabolario dei miei ragionamenti postumi, sempre più presenti nelle discussioni. facciamo fatica quando siamo stanchi a gestire tutti quegli sguardi. fisso il vuoto a tentare di capire chi ha permesso al mio sorriso di aprire una breccia notevole nell’umore. aspetto allora la carezza sulla mia pelle irregolare, sulle mie forme irriproducibili per i canoni di uno standard lontano dal fascino dell’autonomia. critico aspro il colore del prodotto dei tuoi discorsi, ai miei piedi, a macchiarmi le scarpe e a farmene sentire l’odore per il resto del giorno. asporto ogni simpatia dal mio sguardo e fortunatamente già qualcuno muove il capo dal lato opposto alla mia espressione. la pioggia descrive il mio animo, tutto macchia e libera l’aria asfissiata dai suoi abitanti. nessuno sconvolgimento per i bambini seduti al muretto, a fissare come tutto quello che gli hanno insegnato non esiste in quello che guardano fuori dalle mura di casa, perché in molte strade la televisione non prende forma. non ho visto niente signora, non ero qui. non hanno ancora inventato un sapone che possa lavare dagli occhi quanto abbiamo appena visto. gli obbiettivi della giornata sembrano dissipati nelle sorprese di incontri fugaci. sappiamo entrambi cosa non succederà, e ne siamo contenti, abituati a sognare quanto non vorremmo veramente. contiamo le foglie mentre il vento le spazza via; il paesino in cima il colle ha la vista su tutto, e prima di noi conosce come ci sentiremo. non ci curiamo del bussare alla porta, e mentre mi parli osservo chi commette i miei errori di ieri. comunque ascolto il tuo discorso, comunque mi interessa. non siamo fieri del nostro rimanere fermi sulla terrazza a giudicare i condomini. guardiamo al domani come ci guardiamo i piedi mentre camminiamo, solo attenti a non sbagliare passo ma senza dare quell’importanza decisiva alla direzione. teniamoci più vicini possibile ora che smette di fare freddo, camminiamo sulle foglie secche e forse un giorno ci baceremo, sotto il sole della mezzanotte.

stendo il colore fuori dalla mia porta, metto il benvenuto a chi sa leggere il nulla. accarezzi l’estremità di un mio dito, commentando in silenzio le mie abitudini. esclamo quella che sarebbe la mia intenzione di sentire il tuo parere con un monosillabo di giustificazione convenzionale; ottenebro le mie motivazioni dal continuare l’interrotto discorso senza poter mascherare il tentativo di riproporre la lucidità d’espressione ormai ferita, distratta. contengo a sforzo il singhiozzo dell’animo di certi momenti dello starti accanto. la fatica che sento è la presenza delle mie convinzioni nelle mie idee, limite con il quale il conflitto è molto alto. di fianco a me sento quel qualcuno che mi giudica, la pressione che mi infliggo, lo spingere di quello che vorrei essere. quando le due realtà si guardano negl’occhi quella arrogante non ci mette molto a morire o a voltare la sua attenzione altrove, sorridendo, non facendo i conti con i le pluralità insignite anche nel suo essere. l’ammissione alla realizzazione di tali limiti è feroce nei confronti del comune essere di tutte quelle sfumature, l’arrogante cerca di potenziare le sue motivazioni, ma in faccia alla realtà sarà sempre per terra a rialzarsi a fatica, questo mi sembra. com’è che facile attaccare i deboli non è sempre semplice riconoscere poco vigore in chi sempre cerca d’apparire qualcos’altro da cosa non accetta di essere, e siamo sempre lì. facciamo presto a congratularci con i nostri successi. basta abbassare gli occhi e le scarpe mi ricordano gli errori che ho fatto.

oggi.

non posso più concedermi il lusso del chiunque di pretendere che una persona pensi quanto io pensi che stia pensando. la troppa concentrazione da me veicolata nel tentativo di direzionare una relazione al solo mio scopo con la pretesa che possa essere la soluzione ideale al bene comune è uno degli aspetti del mio egoismo che non avevo mai preso in seria considerazione. guardo i graffi che non ho deciso di farmi sul braccio, gli occhi si ammorbidiscono e la testa non regge il peso dei pensieri; un immenso gruppo di idee piega la mia fisicità e delinea i sempre più opprimenti limiti del tempo. il collo è sempre teso e fa sempre caldo ovunque. a completamento della mia insoddisfazione mangio continuamente. ignaro del resto, osservo le onde e non mi pongo domande su quel domani da tanti così agognato. il vento modella quei capelli unti e mai governabili. accendo il caminetto per rievocare la memoria di quell’abbraccio così intenso costato praticamente dei mesi. niente flessioni dello spirito nei confronti di quell’umore nero che guida le decisioni; non solo l’anima è stata collocata male nell’immaginario delle persone. oggi è confusione di sapori, è l’incoscienza della non consapevolezza del peso del proprio sguardo. mi tiro più di uno schiaffo, non serve; è necessario agire sui genitali. mentre le nuvole avanzano mi sento più protetto, non competo con il nulla di un vagare denso del vociare di corpi che costantemente tentano invano di abbandonare quella povera anima così poco considerata. strappiamo i vestiti con facce da assatanati e cerchiamo di stupire i costruttori di ricchezze che ci osservano e non capiscono, le loro conclusioni irrimediabilmente si scoprono lontane dai nostri perché. abbiamo fretta di farci capire; abbiamo impeto d’essere amati. quante passeggiate ho dedicato al desiderio dell’incontro casuale. non ho più motivo di spiegarmi a chi mentre parliamo cambia discorso come cambia canale quando trascorre il suo tempo che gli piace chiamare libero di fronte la televisione. non c’è spazio per le mie idee nelle loro convinzioni. non c’è benvenuto nei miei occhi per i loro sorrisi.

invidio chi conosce i segreti di realtà che mi affascinano, e la luce del sole cambia il colore di quel panorama che mi è permesso godere solo da un vetro, attraverso un percorso prestabilito da qualcuno che non conosco. un muro di cinta divide i due ambienti: quello in cui sono e quello in cui vorrei essere; un muro che obbliga anche un notevole distacco cromatico, una forte povertà d’architetture rafforzata da i colori che la compongono, scale di grigi che si inseguono a favore della perdita di qualsiasi stimolo. è il sole, appunto, a permettermi adesso di desiderare qualcos’altro. fortunatamente le nuvole azzerano gli stimoli di tutto, e mi facilitano la sopportazione dei miei limiti e di quelli che, sempre qualcuno, mi impone.

fortunatamente siamo allo stesso tavolo, l’uno di fronte l’altro e non guardandoci negli occhi ci sono comunque momenti in cui ci capiamo. a servizio della mia pazienza il mio cervello mi limita le energie, conoscendomi tiene maggiore riserva per quei momenti che mi butterebbero per terra del tutto. una primavera autunnale che ci rovinerà l’arrivo dell’estate, noi, sempre troppo esigenti dalle conseguenze dei nostri errori. cerco continuamente corridoi lunghi e quell’illusione di infinito che solo il mare mi ha insegnato; piccolo, non mi capacitavo di come potesse esserci qualcosa al di là del mio vedere, non mi capacitavo di come quelle distanze non fossero tali anche sui libri che mi dicevano di leggere, dove ci hanno abituati a pensare, dove ci hanno addestrato a favore di una società che non giova i nostri spiriti selvaggi. nonostante la nostra goffaggine naturale, oggi, sapere che mi stai pensando mi rende più bello. lo intuisco anche da come mi guardano gli altri, e da come non mi interesso di molti di loro, con la tua energia a saziare i miei sogni. è meravigliosa la tua presenza nei momenti in cui sono completamente solo ed in silenzio, a fissare il buio, immobile, a cibarmi avidamente di immagini proiettate in uno spazio ancora più buio della mia stanza, spazio protetto dalle mie ossa. cerco di immaginare presto anche il giorno in cui questi piccoli uccellini trovino la forza di provare il volo dal dirupo della mia fronte, altissima per entità così fragili e indifese. mantengo lo sguardo fisso su quanto mi aspetta, non mi volto mai indietro, quasi non ci riesco più. sembra che qualcosa stia per cambiare. sembra che la tua presenza sia sempre più fondamentale e insostituibile. mi pongo delle domande sulle mie abitudini e mi consola la loro flessibilità. tengo conto di quanto mi indispone e faccio le mie passeggiate a conferma della mia esigenza di movimento. capirò un giorno la posizione di quella destinazione che spesso mi immagino, intanto, sento l’esigenza di muovermi verso di te, sicuro di un sorriso vero.

con sguardo serio lascio sorridere chi mi sta accanto, aspetto con ansia tipica di chi ha già vissuto l’esperienza che il suo cervello scorpori quelle persone a cui ha dato origine. linee grigie quasi perfettamente diritte, sul muro bianco, a descrivere la nostra distrazione nello spazio, nella stanza gigante dove ci raccogliamo a disturbarci l’un l’altro, perchè non possiamo avere il nostro studio. immagino degli occhi alle mie spalle che scrutino i miei movimenti, che cercano di capire i miei pensieri, come io, spesso, cerco di raggiungere i meccanismi del pensare altrui; sono tutti troppo impegnati a mentirsi. mi servirebbe solo una scrivania immensa, un piano piatto su cui affrontare la tridimensionalità sulla carta, sulla quale costruisco i piani che mi porteranno alla mia pacifica distruzione, per condannare ciò che uccide più della morte. come da bambino, vorrei vedere più fuoco, quando la notte veniva colorata dalle azioni in malafede di disperati cronici, soggetti al controllo di una dipendenza alla sofferenza. poco raggiungibile lo sfumare al verde dell’inizio della primavera. muovo i bicchieri sul tavolo, cerco la perfetta disposizione di geometrie che non so disegnare, cerco quella rappresentazione vicina al concetto di perfezione quando fine a se stesso, alla disposizione ideale di oggetti trovati casualmente sotto il naso, dopo la lunga strada che alcune riflessioni hanno preso. il bianco si prende gioco della maggior parte dei nostri desideri, ci distrae posizionato in angoli predisposti. il profumo di un terreno umido, il colore di quel cielo solo nascosto dai palazzi; i volti che invecchiano sui mezzi, tornando a casa alla stessa ora ogni giorno. collettivi di persone che dimenticano di possedere un’anima. il legno chiaro ci suggerisce gli anni che ci metterà a scurire, il colore che da bambino cercavo di raggiungere mescolando tutti quelli che possedevo, e non bastava, era un colore che non avevo mai visto e mai avrei voluto creare, quel colore che non ho mai trovato. vorrei altre dodici persone con me ad urlare nella stanza dove possiamo fare rumore, a cantare quell’assoluto di fastidio continuamente con 15 apparati respiratori, senza permettere la minima pausa al totale che sa farci vibrare quel millimetro parallelo alla nostra pelle. avviciniamo i nostri standard al contrario della normalità che definiscono quelle persone di cui abbiamo schifo, senza forzare quel naturale già essere tale del nostro vivere. i chilometri che fanno i pezzi di carta nessuno li ha contati, insomma, i chilometri che ho percorso su dei pezzi di carta non li ho mai contati, e credo nessuno l’abbia mai fatto. il tempo definisce le sue imposizioni ed allo stesso tempo mi avvicina a te. ammorbidisco gli occhi.

“come ti vidi m’innamorai. e tu sorridi perché lo sai.”

a. boito

non sento presente il rinnovamento del mio sguardo, ammesso che questo giovi effettivamente alla realizzazione di quelle aspettative che non esprimo quando parlo. altrimenti le metafore si richiamerebbero l’un l’altra, annoiando un’immaginazione già mai stimolata, costante sotto il controllo di scopi tristi. cerco l’attenzione di scricchioli di vecchie travi di legno che possano tranquillizzare il mio animo curioso. avvio quel processo di evocazione di pensieri attraverso la costruzione di ambienti ed umori, poi arriva sempre quell’agente disturbante che agisce a lancette d’orologio, come un ticchettio percuote la mia concentrazione e contemporaneamente cancella il tempo che definisce, ponendomi dei limiti dovuti all’organizzazione ad incastro degli impegni che non tutti sembrano rispettare o semplicemente capire. mi tengo alla maggiore distanza possibile con quello schermo dovuto alla mie esigenze e sempre cerca di romperlo per il goliardico tentativo di un contatto che non è benvenuto allo stesso modo dalle due parti, dovrebbe essere già chiaro da tempo; poi mi chiedo qual’è il senso di agire in questo modo per qualcosa non ugualmente desiderato da entrambe le parti, a favore quindi di chi cerca di essere timoniere di una manovra alle strette ma in pieno mare aperto, alle soglie del niente: io lo chiamerei egoismo. non mi è stato chiesto cosa avrei voluto io fare, o come avrei voluto io gestire il momento, come posso quindi essere partecipe di una cosa che mi è imposta? come posso obbligare me stesso al presunto piacere di una cosa? come posso convertire il mio dissapore in piacere? perciò agisco da muro e ascolto e mi viene naturale rievocare quell’immagine fissa di quando con mia madre, io piccino, si faceva visita ai defunti nonni e l’anziana vedova o l’anziana non più madre lamentava a voce alta e condivideva con i cipressi la sua sofferenza. guaio alla mia pazienza. il suo sorriso mi infastidisce, mi rimanda a quella terribile figura che mi proietta addosso quando mi guarda. ho bisogno uno spazio a me dedicato. ho bisogno di poterci passeggiare senza nessun tipo di interruzione. ho bisogno di un tavolo dove poter disegnare.

che fretta c’era?

meraviglia. stroboscopicamente il mio viso viene accecato, riprendo lo sguardo e scorgo un ostacolo. di scatto lo evito e così continua per chilometri; strada facendo continuamente mi ripeto che sarebbe ora di fare attenzione, conoscendo i pericoli del non guardare la strada che si percorre. mi siedo a far pausa su un’abitudine, sorseggio acqua come se avessi sete, quasi mi vergogno ad agire così meccanicamente. un lampo di luce a ciel sereno, la famosa metafora prende forma al mio risveglio, sono pochi i secondi in cui non capisco quello che vedo; come poche altre volte nella vita devo chiedere che mi venga ripetuto quanto appena perso. un fiore si piega al peso dell’acqua, ed il giovane che si sente sensibile ne accarezza i petali che trattengono l’acqua, sorride e guarda al di là dei limiti fisici che gli impediscono di essere dove lui creda che possano esistere i suoi desideri, egli, stolto. uno sguardo dedicato al vuoto, rende perplesso il passante che apre la bocca. gli occhi si incrociano e il vento non è sufficiente a mantenere la veglia. il villaggio dei pazzi si popola di persone ben vestite, comuni. la nuvola silente si deposita sul ciglio di un ricordo nostalgico, a far ombra sul nulla, con il suo bianco, anzi ad amplificare una luce già fioca. tutti urlano e le loro labbra sono immobili, lo scurire si infittisce. non mi sembra opportuno sostare allo sguardo di chi si ciba e veste i morti. i sassi implacabili tormentano i miei piedi quasi scalzi, a contatto con i difetti della loro stessa forma. stiamo cercando una casa completamente composta di legno, per annusare la verità. a velocità folle scorgo i cambiamenti delle forme, le macchie e le crepe che necessariamente devono mutare. forzo quindi i discorsi e veicolo le tue azioni ed i tuoi pensieri al mio volere, ai miei desideri. ho sbagliato i tempi della discesa, mi trovo sconsolato in largo anticipo alla domanda che già ebbi rimandato; è una domanda semplice, a riguardo di come impiegherò il mio tempo anche oggi. un racconto che si è perso nel vociare sempre presente che tormenta le mie ore lavorative al tuo cospetto, al contemplaménto delle tue forme proiettate scure in un ambiente illuminato dal rimbalzo di un riflesso già scialbo. la stanchezza non mi permette di godere di un bel tempo ormai sempre presente, che deve farci dimenticare che stiamo male. farò collezione d’intenti per le mie future passeggiate, osserverò con cinismo severo quei passanti che continuamente rimandano l’ascolto del sé. persone che sembrano troppo stupide da non essere stupide quando serve che lo siano. ho costantemente bisogno della musica per ricreare quello che dovrebbe essere il mio stato meditativo ideale, per il semplice motivo che gli altri sempre non sanno essere silenti e si circondano di rumori inutilizzali ad altri scopi che non siano poi il mero disturbare e richiamare a sé l’attenzione dei poveri presenti. forte ho sentito un brivido mentre osservavo delle ragazzine con il viso piegato su un lato, a ripetere insieme delle parole, a guardare nel vuoto, a cantare parole di un ragazzino distante da loro. come una corporazione ha potuto raggiungere le emozioni di una persona? piuttosto: come una persona non ha saputo evolvere le proprie emozioni? la corsa del cane ad occhi attenti. le macchie che le scarpe spostano. le strade completamente deserte la notte. le persone che ignoriamo quando non consideriamo le innumerevoli mura nell’intorno. non abbiamo mai saputo renderci conto di come siamo circondati ovunque di situazioni e storie che seguono un corso preciso, spesso contrario ad alcune aspirazioni culturali dei soggetti interessati. oggi solo tu ti sei appoggiata alle mie colonne, tu che hai poggiato anche il dito dove nessuno era mai riuscito; dovrei parlarne io dei miei mondi, tenerli chiusi nella mia scatola cranica è stato, è e sarebbe un disastro. piango lo spazio che non posseggo per dare forma ai mostriciattoli che mi fanno sorridere, che permettono ai miei pensieri di materializzarsi senza la presenza del mio viso. disperatamente provo a comandare i movimenti dei miei pensieri, tento l’invocare desideri appartenenti a piaceri inesplorati. orrori continui si proiettano ad ombre nella camera del bambino che, non impaurito, scruta la sua percezione. speranzoso mi affaccio alla finestra, continuamente mi chiedo quando potranno essere allietati i miei desideri, quello che percepisco come bisogno. il colore segue la discesa, cola e descrive quel percorso che niente e nessuno ha mai fatto. il polverone che viene alzato dal vento tinge e personifica i pensieri di una figura immobile, che sbatte le ciglia a ritmi lontani, nel mezzo di una strada carrabile, illuminato da luci alte puntate a quarantacinque gradi sul viso. c’è bisogno della lenta gestione di tempi brevi, di un affanno prolungato alla tachicardia, di un singhiozzo nervoso. per evitare di ripetermi mi stendo per terra. continuamente gli occhi cercano di chiudersi mentre leggo, appoggio la testa e non dormo. mi fai delle domande precise e sempre mi chiedo se queste siano modi indiretti per chiedermi qualcosa o stai parlando di qualcuno che non hai mai citato. ci sarà bisogno che mi prenderai la mano; questo è sufficiente.  ci siamo detti che avremmo percorso tutta la strada insieme. arrivo puntuale e mi dici che non ce la fai. mi basavo sui tuoi denti a nascondere un labbro, a mordicchiare la pelle. solitamente il corpo non sa mentire.

futuro presente

il bambino che sono vorrebbe tornare a giocare, visto che il sole, alto, si comporta come quando con la palla si attraversava un quartiere di solo cemento. stasera mi ciberò allora di sinceri sorrisi, che mi ricordano quella sincerità di comportarsi di quei giorni in cui l’obbiettivo continuo era giocare. ci insultavamo quasi per conoscerci, per appartenenza alle simpatie dei sentito dire, per avere qualcuno con cui sorridere il giorno dopo, per poter allearsi a favore di un combattere inutile, ignorante. talvolta, da piccino, sopperivo alle mie idee allontanandomi quando queste dinamiche sociali si presentavano, mi isolavo e concordavo con la mia razionalità, rafforzavo di concetti le mie intuizioni. se decido di uscire adesso è per incontrare quei sorrisi che mi fanno sentire importante, che mi fanno pensare che quanto stia facendo abbia almeno un minimo valore. ci siamo toccati le mani, io e te, a grande distanza, mentre mi convincevo che le tue domande fossero un modo per dirmi qualcosa di delicato, di non esplicabile in presenza di un soggetto terzo, agente disturbante. poi mi guardavo i piedi, e mi ricordo le ultime promesse che mi ero fatto in merito, che non mi sarei soffermato a pensarti ovunque, a cercare ossessivamente l’immagine perfetta del tuo giacere al mio fianco, fino alla contemplazione del mio respiro sul mio costato, ad amarci come non ho mai potuto amare nessuno. la strana sensazione che questa volta i germogli che vedo sono prodotto di semi ben piantati, quasi miraggio tra gli infiniti campi su cui ho passato giornate a seminare ad istinto. mi sento addosso un enorme pubblico che non esiste, a dove tale percezione ha origine? quale tipo di energie telepatiche mi permette di assecondare il mio inconscio? cosa produce quei brividi? neanche il tempo di voltarmi e il tuo sorriso sa essere quanto tempo fa sognai. mi sento sicuro di quello che i nostri occhi vorrebbero dirsi. siamo arrivati a tanto solo camminando, a ricerca di quel fantomatico equilibrio di cui hai visto solo uno spiraglio. accomodiamoci lontani dalle certezze di chi ci è vicino, da chi ci professa certezze senza essersi curato di quello che pensiamo, ignorando quel percorso che con cura attraversammo. vorrei perfettamente sapere il vero motivo per cui sento il bisogno di vederti ogni giorno. ci penso, oggi non è proprio giornata per contare i granelli di sabbia.

fist.

perimetri. la voglia accurata di piazzare le geometrie. il colore delle forme sarà dettato dai rimbalzi dei suoni su di essi; dal come rinvigoriscono se stessi senza l’approccio di un’immagine in movimento: costruiremo la sua forza da questo, faremo si che la potenza di queste frequenze sia tale con il solo apporto di piani bidimensionali monocromatici; la sua forza sarà indipendente e il nostro scopo sarà farla esplodere. come crediamo che sia possibile dici, attraverso delle immagini pensate allo stesso modo. forti che possano assorbirti da sole. così impalcheremo i tuoi pensieri, li ciberemo con le angosce che viviamo, li faremo crescere su basamenti indistruttibili. ti assicuro che non fingeremo di sapere quello che stiamo facendo, ma, come sotto una doccia, ci lasceremo trasportare dalle sensazioni. non ci riserveremo nessuna serenità. non abbiamo tempo per goderci il fresco stare distesi su di un prato definito per questo scopo. i nostri spazi urbani rimangono tali e non ci illudiamo di piccole oasi di plastica. andiamo alla ricerca di quanto vogliamo all’interno dell’habit che gli appartiene. trovo inutile disegnare l’ennesimo labirinto in cui portare i nostri amici, nel rubicondo tramonto di nuove esperienze che di nuovo hanno solo forme non caratteriali, cambiano le apparenze e rimangono presenti le noie che sempre ci lasciano teso il collo a dimenticare quanto abbiamo appena vissuto, obbligati da una pretesa d’appartenenza lontane dal nostro saper amare, che da anni accarezziamo con i guanti che ci hanno regalato, o che noi stessi abbiamo cucito. ci sentiamo figli di qualcosa che è stato dimenticato.