non c’è liberazione per quel povero sguardo vuoto che curioso riunisce le sue pulsioni al suo momentaneo giacere in mezzo ad una folla che costante è affamata di quelle emozioni che noi tutti cerchiamo quando ci muoviamo tra le cose, sugli sguardi, negli odori. si siede sulla scalinata a fissare il ricordo delle mie labbra e delle mie mani. forse la ricerca della mia attenzione si distrae dalle occasioni che lei ha trascurato quando n’ebbe occasione. il mio tacere ha esigenze esistenziali, a riguardo delle energie, esse carenti, che devo preservare per il resto della settimana, perché, oggi, è lunedì. lei tiene gli occhi bassi; ogni tanto li alza e cerca i miei che, coscienti, non le dicono nulla, se non che la stanchezza ha inglobato le mie mimiche facciali. la mia cordialità viene investita ogni secondo da qualcosa di vorace, indomabile richiamo primitivo di stupidità nella forma dell’ingordigia. faccio il possibile per navigare la normalità della situazione estrema, senza radicalizzarla al suo massimo, all’esplosione del suo non più possibile contenimento. mi lascerò sfuggire l’occasione di vivere uno stress di ampia portata, nel prematuro collasso dei miei futuri sorrisi. sarò anch’io parte dei rifugiati nelle proprie abitudini, tra le scuse che graffiano gli specchi, lor cani che creano un effetto domino che sento potente sulle spalle, di sorpresa. la soluzione è invadere il buio e cercare con lo sguardo un buco inesistente ove la luce possa esprimere un concetto, non ci sarà soluzione al richiamo dei miei desideri, che solo in quel buio ambulante potrebbero vivere per sempre. ma, prima o dopo, o io o lui ce ne dovremmo andare. intanto il mio bisogno d’acqua supera la capacità volumetrica della mia bocca: me ne sto con le palpebre a metà, mentre la maglietta si bagna, appoggiato a più parti metalliche, con lo sguardo di un animale sotto sedativo che barcolla goffo. mi circondo di rumori, perché il silenzio ipnotizzerebbe la mia ricerca che matematicamente sarebbe interrotta, e gravissimo trauma procurerebbe tale rottura. faccio matassa dei miei malori e mi distraggo tra le opinioni, nello studio della non comunicazione che a percezione semi conscia decidiamo di sposare, per comodità, per noia. faccio bagaglio degli altrui errori e su di questi appoggio la mia flebile stabilità fisica, il mio giudizio incostante. nauseato dai miei impegni cerco rifugio nei sapori, distrazione dei sensi, soddisfazione al palato. i sapori della sua mente però disturbano, corrodono lo scheletro del mio fragile equilibrio all’interno di una situazione già di per sé delicata e continuamente sotto pressione. non posso far altro che parlarne con il silenzio, mio unico amico, mio vero uditore. sempre mi dimentico dei pesi che mi porto dietro, distratto dai miei discorsi alle ombre. mentre fatico me lo ricordo, che potrei ogni tanto alleggerirmi. accarezzo la polvere per percepire quel qualcosa che c’è tra me e quello che abito. trovo solo superfici appuntiti che incidono nei miei futuri ricordi dei momenti qualunque. cerco il riflesso del mio inconscio sulle reazioni delle persone al guardami; indago l’altrui sguardo alla ricerca di una presa di coscienza della mia entità che, può capitare, non sento così presente. mi vengono in mente le persone con cui vorrei fare questi discorsi, sempre lontane, sempre affollate. ho intuito un’espressione curiosa, mentre pensieroso mi allontanavo da alcuni pesi, era una ragazza tranquilla, che aveva trovato riposo in un angolo poco prima per nulla valorizzato. avevo uno sguardo equilibrato, tranquillo. ho invidiato il suo viso ed il suo cappotto. mi sembrava il momento adatto per tacere, per guardare per terra, per dare dimostrazione al senso del mio sostare in quel preciso momento. lo stato comatoso della mia autostima sembra preoccuparmi in questi momenti, poi ricordo il velo di fantasia che v’è appoggiato al di sopra, e la memoria torna alla sobrietà del non esistere, del continuo apparire dal quale siamo soggiogati. la mia dose d’immagini non è stata sufficientemente saziata oggi; deluso mi guardo le mani sporche e non curate. ringrazio la mia pazienza e maledico la mia sveglia, nemica della mia tranquillità. ho fiducia comunque nei miei squilibri, sempre partoriscono dissensi fisiologici che mi permettono la permeazione di quanto respiro in precise ed inesplorate zone d’influenza nel cervello. sospiro alla comprensione di torsioni corporee nelle situazioni sociali al mio fronte. mentre ragiono è la stanchezza a porsi di fronte il mio raggio visivo. mi nasconde tutto. mi obbliga a tenere gli occhi aperti per essere conscio del momento in cui ne sarò liberò. la tortura che ora, più di tutto, mi lede.
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temperatura corporea che sale, gestione antipanico del battito cardiaco. statico, mi sento incapace di crescere come un albero incastrato tra i palazzi, senza sbocchi e spazi. un attimo prima dello svenimento, quel frammento di secondo dove il bianco degli occhi si espone, la testa si china e le ginocchia muovono il primo cedere. una sete vorace, naturalmente conseguenziale al collasso delle energie. finalmente sono disteso ed incapace di alzarmi. osservo l’acqua evaporare, la respiro per evitare che questa muoia, com’è certo che sarà. persone affacciate alla mia porta, ad aspettare che venga il tempo di fare da cornice alle mie azioni, sia mai che non sia accompagnato dalla realtà di questi luoghi. i mezzi a scandire i tempi delle mie giornate: quei quotidiani vortici pericolosi, prodotti degli stimoli che ancora non so come alla mente mi arrivano, mi obbligano ad agire. non trovo modo di schiarire quanto non può esprimersi al solo consentito muoversi. l’occhio vede più lontano di quanto sia tattile, ed ignora le sfilate organizzate da quei cervelli affamati di cose che solo apparentemente hanno senso. mi muovo con sincerità e lancio ami impossibilitati a ferire, che hanno il nobile scopo di salvare chi è incastrato in manovre deprimenti, con la presunzione certa di poterli definire tali e di offrire una soluzione che possa essere dimostrata tale, senza fraintendimenti, che talvolta, ahi noi, alcuni rifiutano. trovo consolazione nelle forme; vado alla ricerca di quelle architetture che sappiano allietare quello spirito tormentato dai troppi stimoli, dalle troppe cose, dalle troppe nausee percepite. il sentiero fresco ombroso, strada gentile quando si gode nel percorrere fine a se stesso, piuttosto che allo giungere opaco e privo di una vera e propria realizzazione liberatoria. il mio sorriso allora si esprime poco già esso consapevole delle delusioni che sono pronte dietro l’angolo a sorridermi anch’esse. non mi dico bugie e porto la mia pazienza a quei limiti maniacali, che a stento la ragione contiene garbatamente. nuoccio al massimo a me stesso e faccio il possibile per mantenere la situazione su questo livello, mi spiacerebbe molto il contrario. riempio la stanza di travi che mi aiutino a sostenermi in quei momenti in cui proprio non ce la faccio. sono tanti i giorni in cui il sentirsi soli non trova personalità che possa giovare al me stesso; sia questa mancanza fisica, sia questa mentale al momento non sembra crearmi grande differenza. è quell’abbraccio che non sentivo da anni che mi ciba di questo. è quella parola detta in quel momento, dopo le dovute riflessioni, che mi rende sicuro del concepimento finale di una soddisfazione concreta, realizzante, propositiva e, non infine, costruttiva. vorrei fare di più e più spesso, ma ci sono troppi universi tra l’incontro sincero dei nostri sguardi. non esistono filtri che non siano la nostra conoscenza; sono gli unici regali che posso fare, questi. non sono certo padrone d’altro. come non hai avuto occasione di vedere, di materiale non posseggo molto; ma questa facciamo che è un’altra storia. perciò mi dedico alla contemplazione dello sfinimento fisico, cosicchéil mio successivo fissare il vuoto sia giustificato dall’assaporazione del riposo, nel rilassamento naturale di quanto non troppo spesso è sollecitato. mi viene facilmente in mente, di questi tempi, quando un’amica mi ha confidato come lei simulava il volo, mi sorprese e affascinò, era un gioco che ora rimpiango di non poter fare, sempre chiuso tra i cementi e diverse stanze. sono sicuro che un giorno saprò soddisfare i miei tempi, ora mi devo allontanare dalle acconciature dei giovani.
quattro volte in quattro giorni.
la soddisfazione si riconosce nel forte soffiare del vento, a cielo limpido il sole nitido descrive: tutto si muove violento, trascinato dall’essere più profondo. quando l’inanimato prende ciclo, muta il suo non essere a favore di una mancata percezione del moto, del cambiamento. il suono alimentato dalla stessa forza che muove, doppia virtù di un’energia pura. i miei occhi sensibili a riparo da quanto è più sottile della mia concezione volumetrica dello spazio; così consiglio allo sguardo l’alimento principale per quanto non dico: cosa non dico quando parlo. il mio occupare muta continuamente nonostante io sia immobile. non tutto quanto posseggo è a me controllabile. lancio il mio pigmento a servizio di un futuro impercepibile, lieve e fondamentale mutazione della storia degli eventi; decisione da cui è impossibile esimermi. come quando scelgo il luogo in cui sostare, a speranza d’incontro gradito. un fuoco celebre illumina il mio volto, sempre più staticamente espressivo, autosufficiente alla non comprensione della chiarissima mappa emotiva su di esso coscritta insieme a quanto è stato pensato. non riconoscerai il fastidio nei miei occhi quand’è che osserverò quell’espressione vigliacca ad occhi dolci su di un volto che, giustamente, dolce non è. il male che ti sei inflitta ha disegnato il corpo, non vedo per quale motivo una tale pratica debba andare avanti. mi trovo costretto a ripeterlo: non cercare negli altri quello che vorresti trovare in te stesso. allontanati dal palco, anche se mi conosci non è detto che sia opportuno avvicinartici.
ci sediamo per un caffè, discerno i tuoi umori dall’aggrottare delle tue ciglia. la sala è vuota, il mobilio ripercuote sul costo delle nostre consumazioni. vicino un tono di discorsi opaco, di senile freschezza. i mesi in cui non abbiamo parlato hanno prodotto un non enunciabile insieme di eventi ed esperienze: il nostro vissuto così distante, i diversi ambienti così sconosciuti gli uni dagli altri, il nostro essere così simili, nei pensieri più intimi, nel rimpicciolire lo sguardo, a concentrarsi su chi, davanti, ci racconta qualcosa di riconducibile al fascino nascosto dall’apparire, ahinoi, dalle nostre parti, così presentemente importante. non è stato difficile sbagliare strada, saltellando tetro in una nebbia ad anticipare l’inverno in ritardo. i colleghi rumori prendono possesso di un nulla attraversabile a passo diafano, percepibile ad empatia. colla per i movimenti, il continuo essere osservati; assoggettarsi per bloccare il respiro, per essere completamente a servizio di quella forte paranoia che circoscrive i pensieri; il limite crudo di un sapere volubile all’inutilità, alle faceziuòle. spirito de noi altri, chiama la tempesta, per colorare un cielo di espressioni che smuovano quel dannato sorriso che c’hanno tutti indosso. i cani, essi, fingono d’esser capaci di arginare pulsioni feroci. nascondono la faccia dietro la mano, ignari della profondità del nostro respiro. giocano con gli ami a tentare d’abboccare la nostra rabbia, loro convinti che questa sia ad essi disponibile.
lealtà contratta da uno squilibrio di previsioni, umori contusi per un impegno già forzato. mediocre prestazione a dissapore di un risultato inconsciamente previsto, a volersi male perché la vita non ci vuole. chiare allusioni alla speranza di un futuro in cui non credi non mi convince riguardo la tua conoscenza delle concezioni prospettiche. seminare campi deserti a scopo di una provocazione rievocativa di indigestioni di risultati concreti, in un panorama fatto d’idee, sembra una mossa da qualunquista d’accademia; pieno n’è il globo. ci hanno preso in giro, noi mangiatori di pezzi di carta. hanno cercato di dare senso a casualità sboccate, padroni di poca sostanza si sono affidati al più che naturale corso delle assurdità, convinti fautori di un raro magheggio di condizioni. calcolatori di parole, il giudizio corposo di un vuoto culturale atroce pone luce su quello che più generalmente, ed ampiamente esteso, sia l’incapacità intellettuale di gestire quel sapere veicolante, portatore di mezzi, evocatore di sospiri. aspettavi che il legno parlasse, avevi sentito di particolari visioni ludwighiane nel fresco del periferico bosco. canti di un’era nuova, povera di significati pagani nel percepire. abbiamo altri vaneggi da persuadere. lascia cantare liberi i ragazzi, sono profeti di un nulla affascinantissimo. se ho capito di non essere come loro è perché quando ridevo non svuotavo la mente.
fiero l’occhio si commuove. cerca riposo in una vita continuamente stressata, a ritmi lontani dal biologico concepire. fumate forti assecondate dal vento sollecitano il mio respirare ad affanni sgraditi; virulento comportarsi nel continuo ignorare la presenza d’altri, fondamento dell’agire dei troppi, in un contesto sempre più affollato. dovrei non troppo sforzare la fortuna di poter godere di un silenzio energetico nel mio raggio di movimento. mi sento pulito ed evito con il percepire i contrasti con quelle forze che sporcano il mio varcare gli spazi. lievito madre del mio fissare è quell’intenso blu mare che non riusciremo mai a fermare. il colore che i miei occhi hanno saputo imitare. il fondamento basale del mio essere, la densità della mia anima, forma del mio amare ad accarezzare in modo complementare, non dimenticando alcuna curva. sapore di una terra abbandonata alla gestione di un immonnezzàio persistente nel disturbo. ti vedo a distanza e sorrido, volgendoti quella sensazione che ci regala il vento quando accompagna la salsedine sulle labbra cariche di sole. non ho dimenticato di osservare il modo in cui cammini, nel frattempo, tenendomi sveglio a fatica, concentrando la presenza sanguigna altrove. non ho saputo tenerti la mano quando me l’hai offerta; la mia timidezza ferisce le mie qualità a favore di una schizofrenia di risentimenti. sguardo basso e ripercussioni al cosiddetto groppo. il collo perde tensione, le vene inarcano il loro sostenere. farai fatica a guidare nel buio stasera, mauro.
fiducia nella tempesta.
il ragazzo fissa il muro, ha la bocca spalancata e si sta sforzando parecchio. lo osservo attraverso un vetro che copre ogni suono; provo a battere i pugni e rilevo solo corpi sordi. il ragazzo continua, concentrato sul muro. fissa la spugna e le vene sul viso varieggiano al suo sforzarsi. si tiene le mani l’una con l’altra. ogni tanto si aggrappa ad un polso piegandosi sulla pancia. il vento suona una carezza scura. e avvicina una nebbia flebile, scomposta e avvolgente. il suolo si ricopre di sabbia. chiara la luna suggerisce il paesaggio. al di là del vetro il ragazzo ha con sé una luce, che riflettendo sui vetri lo isola. non avrei vergogna ad amplificare il mio battito cardiaco, e quel fiatone che gli da un contorno. sudato soffro l’umido ostile di una giornata senza ordini. segno di un ennesimo inverno mancato. capisco di aver sbagliato quella volta che non ho seguito questa strada solo perché credevo fosse utile parlarti, tu che bene fingevi di ascoltarmi. avrei più spesso incontrato situazioni sorprendenti, a gestione del mio ritmo cardiaco. la foce di un autunno perenne, i colori sul mare. il fastidio di un sole a descrivere un pranzo servito male. fallimento misero di un corpo a prendere forma fluida. perde valore la concentrazione di un’esperienza all’interno di un percepire reattivo, congruo all’essere. un messaggio chiaro e diretto. fonte di motivi decisionali sul prossimo giudizio; statico di forza, carico dell’energia del vibrare ritmico del corpo stressato. la memoria viene incisa di immagini solide, a descrizione di un assurdo sublime. sembra facile prendere atto di ciò che apparentemente non esiste. annuisco al vuoto, unico termine di confine. tesserò le lodi di un carnevale nero, maschere sincere di un eterno a cui non apparteniamo. sorride il mio lato coerente. i nervi prendono coscienza delle ripercussioni del loro comportarsi, giocano con le vibrazioni del mio sguardo. ogni luce si accende; quando la mia passeggiata trova una sede istantaneamente muore. le energie che mi hanno portato qui annuiscono sorridendo, dolci serene ed inquietanti. ci sono equilibri che si autogestiscono, non considerando quello che ci rende gli animali più stupidi, gli unici animali a farsi del male continuamente, contro ogni logica d’esistenza, considerando come riferimento quella tipica del selvaggio. sono i suoni che avvicinano suggestioni e sensazioni, ambiente magico che ci ricorda tutto quello che non ci siamo mai voluti dire. siamo stanchi di novità. vorrei che ci concentrassimo seriamente su quello che ci meritiamo, smettendola di mentire a chi ci ama e a noi stessi e a chi amiamo. cavalchiamo soli il nostro sentiero, la compagnia diventa solo un peso in queste occasioni. togliamo quel velo sporco che ci siamo imposti, lasciamo che una luce concreta ci abbandoni alle nostre visioni. dove andresti oggi, qualunque cosa potessi fare? indipendentemente da con chi, è lì che vorrei trovarti la prossima volta; i mezzi sono disponibili. lasciamo al fastidio le politiche delle nostre fatiche. l’unico modo che abbiamo per amarci è accarezzarci al buio, sussurrando i nostri nomi, guardandoci negli occhi senza l’ausilio di alcuna fonte luminosa.
cento.
come spesso, era ieri sera che aggirandomi con l’auto mi sono venuti in mente dei pensieri stimolanti; come spesso accade, riprendo, era una situazione in cui non avevo o non potevo scrivere. e quel paesaggio, quella musica e quell’umore non si sarebbero riproposti una volta a casa, nonostante il forte sforzo a mantenere quelle idee così sincere, vivide e capaci di impressionare la grazia che spesso ignoro o non valorizzo. mi dico che al mio risveglio mi ricorderò quel concetto; e come un sogno, una volta sveglio, si è dissolto tutto nei suoni della luce. senza troppe parafrasi, ho fissato degli occhi neri carichi di curiosità; perplessi attendevano una consueta carezza all’animo, in tormento da se stesso, che continuamente è affascinato negli altri da quanto vorrebbe scoprire in sé, povero animo nostro sciocco. dallo specchietto allora ossevo risate che ad istinto invidio, subito dopo correttomi nell’atto di collocazione di quanto appena intuito in quella sfera da cui sento allontanarmi, che sento presente in tutti, in tutte le loro dinamiche sociali disgustose. non riesco a vedermi partecipe in modo cosi falso nei confronti di me stesso all’occultamento delle mie sincerità al mio piano razionale maledetto, capace di farmi del male per i suoi piaceri, come capace di rendermi conscio di questa cosa, a risultato di un’elucubrazione non certo sbrigativa, non inseribile nelle quotidianità che ci propongono. non sono sicuro di poter condividere queste cose con chiunque, infatti, spesso, la mia interpretazione di questo spazio ricade in quanto non potrei dire altrimenti, in una collocazione giustificata di quanto non venga capito, o di quanto la razionalità, in un rapporto a due o più, non si sente di proporre, per degli imbarazzi mentali che mi sarei presupposto, con i dovuti tempi di lavorazione, di sconfiggere per liberarmi. è così che gli occhi si spossano, voraci di conoscere, calpestano le illusioni che ogni giorno ci invadono, che fanno comprare alle persone delle scarpe che facciano rumore, contro ogni senso di civiltà. perpetua e conserva blanda la nausea tipica della disorganizzazione alimentare; dissapore di un ritardo apostrofato in ritmi che non possono avere collocazione in quelli che sono equilibri riconosciuti tali da un modus vivendi al mio concepire amaro e privo della consapevolezza di differenze di realtà biologiche. è un mero tentativo di complicare quanto ogni intelligenza, essendo tale, ha carpito nelle riflessioni più intime; ecco, ecco il termine che non trovai in precedenti riflessioni: intime.
spengo la luce, tolgo la dimensione abituale allo spazio in cui impiego il più del mio tempo. sfondo le porte che impediscono di stare solo completamente. allargo il punto di vista ai 360° che sono obbligato ad avere attorno, a causa della presunta infinità dello spazio. smuovo polveroni a distrarre i vicini, vorrei essere costantemente attorniato da nubi di vapore fresche, e non permettere a chi mi abbraccia di vedere nient’altro che noi due, perchè è un momento che richiede sì concentrazione. potrei rilassarmi alla vista di enormi travi di legno grezze, a sostenere quanto mi isola, nonostante la costante percezione dello spazio attorno mi sia d’impaccio ad una pace irrangiungibile, che l’animo, ancora esso sciocco, presume di poter raggiungere in vie estranee all’illudersi. fff. come il gatto che vorrei essere quando ho bisogno di silenzio e di abitare un albero.
il tentativo d…
il tentativo d’abbraccio, ennesimo e sporadico. costante e dovuta percezione fisica a contrasto dell’umano si risolve nella paranoica realizzazione della forma e consistenza d’una colonna. niente a che vedere con la tranquillità dei miei umori quando la mia pelle non diventa rossa ed acida. a condizione dei miei perché niente si solidifica in possibilità, niente è compatibile con il mio punto di vista, sempre più distante da tutti, sempre più silenziosamente condiviso. la collera invisibile dell’anima che mi abbandonò alla scoperta dei miei poteri ha liberato il mio cervello, sempre più telepaticamente disponibile all’altrui, senza convenzioni altruistiche da voltastomaco, forzature morali o altre forme di stupidità scelta. aumenta il volume dei disturbi dettati dal non poter ritagliare quello spazio decisivo alla sopportazione del tutto, sempre più accalcato alle spalle dell’ognuno, sempre più focalizzato sull’oppressione delle idee e soprattutto sul loro principio di formazione. assecondare l’ignoto mi ingentilirebbe il sorriso, amico di uno sguardo raro. un’assioma cattolico picchietta quanto vedo senza alcun risultato, sempre più moderno il nostro affondare nel fango, noi unici responsabili di esso. l’educazione ripugnante ci ha portato spesso a fare cose che non volevamo, scevri delle collocazioni culturali di alcuni formalismi, coerenti con un immaginario inesistente che collassa sulla realtà avvicinandosi e mai coprendola. un sorriso beffardo a risposta dei miei sbattiti di ciglia, che non nascondono nulla, se non l’eccessiva sensibilità dei miei occhi, sotto costante assedio. profetici i dubbi che mi sono posto passeggiando le notti, la certezza di aver intuito chi e cosa avrebbe ferito le mie debolezze, da me stesso esposte a fiducia di chi si comporta da fidato, che lascia il tempo che trova. sfrutto il rumore dei passi di qualcuno fiero di richiamare più sguardi per alzare il costante ronzio che si avvicina alla sonorizzazione del mio nirvana. apparentemente la mia espressione è cugina di qualche malessere radicato e non compreso tale. non rinuncio ai miei bisogni nei confronti del giudizo d’impatto, pratica di estrema cautela, di calibrazione balistica in allenamento da sempre. scomodo utilizzo delle mie qualità a servizio di un auto pavoneggiamento scialbo, senza accorgimenti essenziali di coerenza strutturale. virtuale maestria di rapporti, persone annuiscono al passare feroce delle mie parole come carezze alla gioia altrui, incompresa, vittima di un’illusione maggiore, sterile di miglioramenti, razionale orizzonte sfocato, fuga di gas percepita al tatto, viscida, collare di una tristezza porosa che continuamente si ciba dell’insoddisfazioni inespresse del vivere.
ti guardo è vedo che sei sempre stata corretta nei miei confronti. le uniche pecche a riguardo derivavano dalla frequentazone di persone che non s’addicono alla tua intelligenza. amo uno sguardo che m’hai concesso, mentre raccontavo forse qualcosa di neanche importante, forse tu concentrata però da come lo raccontassi, dai miei movimenti. vorrei che il tuo pensare potesse prendere quelle forme degne dell’attenzione della persona attenta, capace di raccogliere con il cuore quello che le cose portano sotto il velo. cerco di dirti tutto quello che gli altri non sanno di me. quello che credo meriti sia messo in condivisione quando ci sorridiamo a vicenda, quando ci abbracciamo. ombre sul mio sguardo che potrebbero farti notare le particolarità dei miei lineamenti. siamo tutti consci della chiarezza di quell’istinto che ogni giorno percepiamo a singhiozzo. lo invidiamo, così lontano dalla nostra realtà. niente è lontano dal vivere bene questo sentire, sempre che un giorno non debba aprire gli occhi e rendermi conto di aver affrontato l’ennesimo sogno; e gli occhi, a dire il vero, erano già aperti. sposto il bilanciamento del suono sporadicamente, per farmi perdere l’equilibrio mentre cammino e forzare un piccolo cambio di prospettiva di cui sento necessità, adesso. nuovi giorni si scrivono da soli tra le fantasie che mai sono riuscito a realizzare. cerco un angolo dove meditare in pace e mi rendo conto che il fatidico angolo può materializzarsi attraverso i suoni che sento, essi, che costruiscono quello che sento, che mi creano il silenzio che bramo. cerco comunque di non invadere l’intorno, con il mio bisogno di silenzio. abbandono l’ideale di casa che oggi potrei essermi prefissato, scopro che il mio domani è lontano. contro ogni cuore me lo ripeto mentre agisco perchè l’oggi dia fondamento al futuro che potrei non vivere. feroce mi ritrovo avvinghiato alle braccia di qualcuno che non centra molto con i miei problemi. stringo forte a far male e fisso gli occhi di un poveraccio che non centra nulla ma che conosce il fatto che io agisca solo a favore di esistenti ragioni, e su questo, anch’egli, fissandomi, cerca di leggere la mia frustrazione e non me ne parla immediatamente. faccio finta di recitare e giustifico dei sorrisi a sdrammatizzare alcune angoscie sorte di conseguenza. io e lui parliamo. sono convinto che si renda conto che non faccio così davanti a tutti quand’é che mi viene d’istinto. entrambi approcciamo alle cose in modo sgradevole, ne ridiamo, e commentiamo l’intorno a sfavore di una nostra possibile buona considerazione, sicuri del nonsenso con cui giochiamo ci sentiamo vicini e beviamo caffè. il metallo che ci ospita non trasmette nulla di relativo. su questa considerazione pulisco il cotto di quel tipico colore. fresco al tatto ne cammino rilassato. s’è fatta sera e il mio esprimermi non ha ancora dato segno di sè, mi sentirò perciò obbligato a vagare un pò nel buio, quindi, anche oggi. decontraggo quell’umore di insoddisfazione che ti sento emanare , e ti immagino che aspetti quell’orario di chiusura che ti permetterebbe di fare quelle due parole che non hai mai voluto chiedermi. stelle filanti da calpestare lungo tutta la stanza che dovremo attraversare; percorsi alternativi che non ci offrono un lieto continuare. guardiamo per terra e cerchiamo di partecipare il meno possibile a quell’animo c’ha operato che ci disgusta, che ci ha sempre nauseato. gli odori che ne rimangono ci rievocano quel che tanto ci abbiamo messo a togliere dalle suole delle nostre scarpe mentre aspettavamo una fine degna per quei discorsi che avevamo cominciato. mi guardo attorno e so dove farei una passeggiata. non c’è via migliore mentre il sole scende. ti prendo la mano nei miei pensieri e ti accompagno, compagna di condivisione di quanto ci uccide. ho visto lo scorcio che s’é espresso lineare al mistico aspetto di quel paesaggio che stiamo attraversando. usciti dalla stanza ci siamo resi conto delle qualità del nostro agire. è qui che stasera vorrei mangiare. facciamo finta di niente e abbracciamoci anche se tutti questi gatti ci guardano. conosciamo la loro poca malizia in merito, ma siamo abituati all’essere osservati di continuo, e questo ci fa spesso giudicare male chi non centra. vorrei che adesso ti dedicassi a sorriderti, qui nessuno ti guarda male, qui nessuno te lo impedirebbe.
il vento richiama il tuo nome, forse ti sognerò di nuovo stanotte.
la voce degli omini impersonali. la voce impersonale dell’omino.
e così ci siamo appoggiati allo spazio bianco. quello che dovrebbe essere lo sfondo di quanto sia ciò che viviamo, come dimensione, tramuta nel nostro sostegno. un lembo di pace nei confronti di quanto siamo obbligati a vivere, chiaramente a noi inaccessibile, ed incapaci di comprendere la sua effettiva esistenza; che non sia anch’esso l’ennesimo scherzo ottico. il nostro mondo è giovine, evolutosi parecchio in fretta, sempre riconoscibile e poco invitante da vivere, comprensibilmente. le nostre composizioni sono il perfetto esempio di come nella nostra società non ci siano praticamente gerarchie di alcun tipo, anche le differenze di grandezza non diventano rilevanti e/o motivanti di nuovi sentori, di una diversa percezione dell’altro e quanto segue. ognuno è sostegno fisico di qualcun altro, e, talvolta, viceversa, nell’assurdo di questa affermazione. è un’esistenza votata alla composizione stessa del nostro sostare, siamo mattoncini di un assurdo composto. niente di accomunabili ai vostri “lavori” o creazioni divine. non ci sono ombre, le nostra percezione dello spazio è continuamente stimolata da quello che stiamo sostenendo, da quanto ci obbliga ad appartenere a quello che siamo fisicamente nel luogo dove abbiamo trovato posizione. non è rapportabile a sensazioni di qui mi parli spesso tu, che spesso condizionano il tuo vivere. il nostro vivere invece è differente. molte volte non mi sembra sia importante neanche parlarne, avremmo anche dell’altro da condividere riguardo la nostra percezione delle cose. il mio universo è assolutamente la cosa che ti è più vicina e noi non parliamo mai; probabilmente non c’è neanche alcun bisogno di farlo, in effetti, non abbiamo molto da dirci.
viola e disgustoso, si avvicina a gattoni un muro forato, sembra avere l’intento d’investirmi. sbatto le ciglia un numero di volte sufficienti a permettere agli occhi di non mostrare niente, se non il loro naturale colore, a me, sempre incantevole. si avvicina il vento ghiacciato, mi ricorda la nascente primavera di un posto dove fa veramente freddo. noi attorno al forno, quasi a pregare quanto stessi producendo. la musica nell’altra stanza sempre ed esclusivamente alta, a dar fastidio, naturamente. complimenti e convenevoli e manciate di <come va?>. finalmente vedo quel volto, ma solo per un frammento di secondo, senza maschera; un incredibile conquista dove trova magna forma la resa, il dietrofront. dopo quell’istante è tornato l’eterno sorriso, il bilanciamento psicosomatico all’umore da formalità, alla più comune presa in giro. e via, come già impiegato si riscopre il saluto che, se non per sbaglio, talvolta, non ho mai saputo fare. è triste, doverne venire a capo in questi modi, all’antitesi del chiarimento vocale, espresso. oltre il rispetto che ne converebbe ai confronti della parte lesa viene immagazzinata anche una notevole fetta amara ripiena di quei tanti gusti che ricordano una lievitazione trasparente a presunto dolce ultimato. la chiarezza viene come al solito fatta in private riflessioni, completate dallo sguardo degli amici nel come e nel quando non ci fossi o semplicemente quand’é che v’ero ma distratto, e capitò. si manifesterà allora in me sincerità, d’ora in poi, al tuo incontro quando t’abbaierò, cagna. terminerà anche questa stagione, tra una pacca sulle spalle e l’altra. accenderei un fuoco per avere da fare qualcosa di sensato nelle prossime nove ore. tarli che crepano i miei sostegni. insetti che annidano tra le mie vesti. si smuove nell’energia quel qualcosa che preoccupa, quella brezza di cambiamento tipico dell’epifanie dell’ognuno, grandi o piccole che queste siano. interi templi di contemplazione al disastro di chi ha saputo operare nell’ambito. la tua prossima richiesta sarà esaudita. basterebbe una domanda di una parola a farmi capire cosa vorresti. niente inutili formalismi di un altro secolo. allora risponderei con una sillaba, chiaro e senza baci. crudo e senza lodi. quanto il tempo buttato dalla cima dove, calmo, risiedevo. mi sono distratto, e non ho accudito i mostri sotto il letto, affamati, sempre, loro delle mie storie. non credo sia il modo di concludere, ma mi alzerò dalla sedia adesso, stanco di pensare a chi non mi pensa.
chi è?
gli amici che mi confermano quanto la mia immaginazione sia andata nell’esatta direzione dei convenevoli concetti che mi hai fatto pensare, sapientemente tu. feroci, i sogni, percorrono sincopaticamente l’assurdo, accompagnando l’inevitabile smarrimento dei loro messaggi. e lì che ti incontravo, le utlime volte; non posso affermare lo stesso, quindi, per i giorni appena trascorsi. lievita un umore già percepito, acido impasto di collisioni chimiche e desideri inesplicati. non ci sarà l’epica esplosione che avevo immaginato, il mio cervello elabora sempre le sue illusioni trasformandole in quelle convizioni che spingono il resto ad agire incautamente. mi lavo le mani e mi dedico al silenzio di un teatro vuoto, com’é che del resto lo preferisco. visualizzo immagini da erbolario, fotografici ritratti stomachevoli e ben colorati a cui mi è naturale aggiungere decomposizioni e marcescenze varie, organiche e non. il mio limite grafico non si propone bene all’elaborazione delle mie ansie, dei contenuti degli istinti delle mie visioni. mi comporto male con la mia percezione delle cose ed è al fiume che getto l’infinito guardaroba con cui dovrei vestire la montagna di fogli bianchi di cui continuamente mi circondo e ne accumulo. non v’è ordine né organizzazione nel mio procedere. è il delta di un fiume che crea mille altre sorgenti che ancora, costantemente, avanzano verso uno sfociare ahìnoi non ancora comprensibile in nessun orizzonte. chi più velocemente, chi attraversando grandi distese, grandi valli. gallerie infinite, come quelle norvegesi e l’eterna luce che illumina i chilometri. la sensazione di non terminare mai di guidare per il semplice scopo di fare quel percorso non stabilito per finta, obbligato in mezzo a mura di neve alte come non le avevo mai viste. il buio non lo cerchiamo se non quando decidiamo sia il momento di dormire. le collaborazioni che non si contano per la costruzione di un’ambiente affascinante e sgradevole. non credo apprezzeresti molte musiche a cui sono affezionato; anche per questo credo tu mi abbia mentito. non abbiamo mai parlato di quello che nascondo dietro gli occhi, dietro i vestiti. giacche pesanti allora regaleremo agli insicuri. occhiali da sole per la prossima volta che ti sorriderò. un passo indietro quando dovrò salutarti. dall’altra parte di un tavolo per mostrarti il palmo della mano e molta poca eleganza per congedarsi dalla situazione. ripetermi continuamente che mi sono sbagliato, e non farlo diventare un paranoico mantra. la carta bianca mi aspetta e come sempre non ne approfitto pienamente. la luna gestisce il mio umore e veglia sulla mia pazienza. non ti sei perso niente, mi direbbe un amico che posso solo immaginare. mi affido al ritardo di quei suoni che continuamente ricerco, penso. ascolto i concerti che avrei voluto fare. immagino i teatri vegetali in cui li avrei ambientati. la stanchezza dello sguardo a cui continuamente è richiesto di muoversi, che, anche oggi, trova il tuo orologio, ed al suo fuso orario sorride ricordando l’ennesimo ritardo appena compiuto, sbiarciando la tua visita, quasi praticamente quotidiania. mi caccio spesso in queste situazioni, ma sempre e solo quando empaticamente non si è raggiunto un vero contatto, una accondiscendenza alla qualunque relazione, all’indispensabile base di un qualunque altro tipo di relazione più complessa. non basta sorridere, a questo punto. lascio la porta socchiusa e il volume di una musica poco invitante molto alto, gli ostacoli sono al minimo. la lampada con cui disegnava mio padre quando si è impegnato per diventare un architetto illumina gli esperimenti grafici che ho condotto per anni, senza troppi collegamenti logici, senza troppi perchè banali, senza troppi esplicazioni da artista di sto cazzo. convengo che sia il momento di riprendere gli appunti, ed amplificare le così distanti tra loro strade che ne sono naturalmente emerse, giovini, senza troppe macchie di quella cultura che mette l’amaro sulla lingua. vedo, che sono lontano dal costruire la parvenza di un prossimo futuro stabile, nella non economia, nelle mie idee fertili, che non trovano il giusto colono nel proprio padrone. sacchi pieni ai miei piedi, la stanchezza c’è solo perchè non ho ancora iniziato a spostarli, con la consapevolezza che dovrò poi un giorno di nuovo muoverli e, non sembra certo, che dovranno uscire da questa stanza dove, prigionieri si chiedono quand’é che avranno la loro occasione. non scuoto nulla, la polvere arriva perchè la finestra fa entrare tutto ciò che arriva a questa altezza, niente di incredibile. le telefonate che ricevo mi tengono incollato a quello che succede nelle mie vicinanze. lo specchio mi descrive quanto talvolta non vorrei essere e le paure di cambiare, che prima non c’erano, che da giovane si divertivano a farmi immaginare delle rughe. pelle stanca cornice di idee germogliate e tutt’altro che mature. un bacio è comunque per te oggi. perchè nonostante tutto ti penso, nonostante tutto i suoni che la neve elimina li ho goduti, mi sembra un buon momento per inorridirmi da quello che realmente sento. non conosco certo dove mi collocheresti. forse un giorno ne rideremo, forse mi piacerebbe davvero. difficile dirlo. il conteggio dei passi non aiuta a dormire. i suoni diffusi confondono. c’era uno strato di miele sul libro di ieri. non abbiamo certo accettato i suoi confronti. era buio e non c’era attesa. come cani accordammo alla fine. chiare lettere di discorsi mordenti. fusti maturi e altalene sicure. non ci fu fossa che seppe virare la distrazione. erano le nostre aspettative che ghiacciavano con il fiume.
una manciata di coriandoli organici lanciata a favore della valle. sorridenti diamo fisicità al vento, cerchiamo di scoprire le sue forme. confermiamo l’estrema responsabilità degli architetti, già aggravati dai danni di una costruzione in sè; commissionati da panciuti di bell’aspetto mettono a confronto realtà che non possono sposarsi, che collideranno per forza. ma non mi sembra il caso adesso. tranquillamente, il trillico muoversi della ventola si duplica sulla scrivania, a fasi alterne percepisco alcuni muscoli sollecitati allo stare fermi, ad aspettare risposte a quelle domande che avrei voluto fare ma. questa non è la mia scrivania, e vorrei poter dire la stessa cosa riguardo al letto di stanotte. muovo continuamente i pensieri, l’unico modo che mi rimane di viaggiare, l’unica possibilità dei miei saltuari stipendi, l’unico modo di vederti quando egoisticamente ne avrei bisogno. l’ultima volta eravamo in un posto accogliente, avevi interrotto i miei pensieri chiedendomi perchè non fossi tornato indietro, capendo solo in quel momento che tu m’avessi visto. dopo un abbraccio spontaneo e poi il mio solito essere inghiottito dalle persone in quei momenti, molto classico. la bambina cercava quella solitudine che le permettesse d’esprimersi sul foglio bianco, sporco di righe o quadretti. passavo di là e la notavo, il suo disagio era silente, subito ho riconosciuto l’imbarazzo della possibile intromissione di un estraneo nel suo mondo grafico, esclusivo e diario di segreti. le pause derivate non sono state decise da lei, non sono state decise da me. resto al fianco del mio non voler dividere quel momento con nessuna delle persone in sala, un’ottima motivazione è non disturbare più la bambina. il suo guscio è rigido ed inflessibile. la mia coscienza si paca. io non ho fatto nessuna scuola, i miei errori rispecchiano i miei passi, i miei istinti. la luce non ho ancora imparato a gestirla, il mio punto di vista lo sento più forte di un accademismo senza carattere, che ti sembri presunzioso o meno. forse non ti ho mostrato il colore dei miei occhi. arrivo comunque sempre in ritardo. quando non è definito un appuntamento. io esco per svago ora, proprio poco dopo che sei rientrata a casa. i miei orari non hanno mai avuto a che fare con le vite altrui, a mio scapito, ma non solo. secondo questo ragionamento avrai queste informazioni mentre starò dormendo, semmai l’avessi lette ora, e io fossi rimasto al passo dei tuoi tempi, magari, in uno scatto d’impulso, m’avresti chiamato. mi baso sui suoni che ho dimenticato di registrare. non espressi e non abbandonati. sempre e solo immaginati e mai veramente estratta la radice dei concetti a cui essi stessi sono ancorati. ti troverei volentieri fuori dalla porta del piccolo teatro, mentre mi affaccio sul lato morto della nostra città di lavoratori. non mi faccio neanche fretta, perchè so di aver già fatto tardi oggi, al tuo orologio. vado verso le mie incertezze; quando ti va, urla.
goodbye tomorrow.
il posto dove andrei volentieri a fare una passeggiata, oggi, è molto lontano. come sempre mi viene spontaneo collocare gran parte del mio immaginario altrove, in una sfera d’irraggiungibilità talvolta economica talvolta fisica. le lunghezze hanno sempre saputo accompagnarmi, negli affetti, nei sogni. sarà che sono sempre stato abituato a fare molti chilometri per raggiungere quelle piccole realtà a cui la nostra famiglia si è legata, dove poi, ognuno, vi costruiva la sua dimensione, il suo equilibrio. realtà spesso molto differenti le une dalle altre, tutte con quel fare domestico e sincero. io, scricciolo, saltellavo qua e là disseminando spesso panico di smarrimento. la mia curiosità era tale da potermi guidare attraverso situazioni personali e chiuse, che s’aprivamo al mio non bussare molto forte, destando poi io la curiosità altrui sulla mia postura, sul mio sguardo. le innumerevoli conoscenze portate a termine in questo modo, nelle mie corse attraverso lo spazio, spesso al buio, perchè sotto il sole mi si nota molto di meno. ricordo i racconti di chi mi vedeva piccolo sulla bici che correvo; urlavano il mio nome ma il walkman urlava più forte. poi la spiaggia verso sera, quando il tramonto trova la sua perfetta cornice, a piedi nudi verso il grande sasso e ritorno. lo sguardo sul moto silente dell’acqua a largo. i giochi prendevano forma semplice, non c’era bisogno di molto altro. i sassi lisci permettevano di farmi fare grandi disegni, e la sfida era di farli profondi abbastanza che resistessero alla prossima onda. finchè la mamma si affacciava al muretto e mi chiamava. grande fortuna avere come unica barriera dal mare il muretto e la spiaggia. poi arriva la sera, si cena quando la luce sta per spegnersi. poi il relax di quell’oretta in cui si avvia il rilascio del grande calore assorbito in tutto il lento giorno. poi si va in giro quà e là. sempre abbracci, sempre grandi risate, sempre scherzi, sempre la necessità di isolarsi ogni tanto e respirare. poi la notte a cui pochi sanno resistere, sempre qualcuno che si abbandona, tra la sabbia e le strade bollenti. a far sfoggio di buon umore. poi si torna a casa, e la notte prende forma nei suoi colori, la luna decide il grado di luminosità dei suoi granelli. le ore che non si contano a fissare il cielo, il buio che con tanta fatica talvolta non si trova. le agende che raccoglievano tutte le riflessioni riguardo le situazioni distanti, da cui mi ero preso riposo, per fissare l’orizzonte e sognare quel giorno in cui mi sarei perso alla ricerca del niente nel mare aperto. gli insetti che escono dalla sabbia e scappano. i vermi sotto i tronchi marci di legna arrivata da chissà dove. le dighe per fermare il torrente inquinato e salvare il nostro mare. la piscina zozza da cui tirar fuori i bambini in vacanza e spiegargli che c’è il mare non distante da lì, forse non l’avevano notato. convincere i genitori che non c’è nessun problema, che siamo dei locals con bagagli di avventure che talvolta fanno guida ad adulti un pò spaventati e costretti a fidarsi di marmocchi che sghignazzano e fanno tesoro delle loro mille storie. tra le distanze si aggiunge quella del tempo, del tempo cane. la notizia che la povera nonna è alle strette, che non sono più gli anni ’80 e che quella casa potrebbe cambiare proprietà, perchè se no non si campa. vorrei fare quella passeggiata proprio lì, con il limite dell’acqua al fronte, che sa darmi sicurezza delle direzioni che non prenderò, di quel limite che mai avrò capacità di attraversare. di quei pochi metri minimamente a me noti che, però, quando giocavo sott’acqua sapevano darmi l’illusione di volare, con amici più grandi dieci anni di me. quante buche scavate per trovare altra acqua. io che mi chiedevo che ci fosse. e quelle macchie bianche nel cielo, che accerchiavano tutte quelle stelle che ogni tanto abbiamo provato a contare. altre distanze stanno per aggiungersi al peso della gobba imbruttendo il mio rimanere fermo. per oggi mi accontenterò di una passeggiata nel vecchio borgo e di quella piazza che tante letture ha ospitato, gentilmente e favorendo il silenzio del freddo.