se non mi fosse capitato di infilarmi per caso in certe mondanità, non mi sarei forse del tutto mai reso conto di essere completamente distante dal mondo. giovani indiscreti e spensierati, colti dall’inerzia del loro automatico agire, ubriachi di illusioni, mi lanciano epiteti che si rafforzano nei loro significati, allontanando quello che ho in me da tutto il resto, in un angolo sempre più inaccessibile del mio corpo. desolato, condisco la mia passeggiata verso il buio con impulsi abbandonati. sento vivace la voce che mi racconta le cose, ha chiaro quasi tutto, riconosce facilmente ciò da cui si è impegnata fortemente ad allontanarsi senza rimorsi. una misera speranza, come un farfalla in mezzo ai condomini, mi passa accanto e cerca di esprimersi, di raccontarsi. bloccata da chissà quale dubbio, mi impone necessario l’isolamento. “come stai? chi sei?” ti chiederei, senza aspettarmi una specie di sorriso, cerco di far presente che a me non devi giustificazioni. non raccontarmi quanto sei abituata a dire agli altri, trova il tempo di cantare la tua voce. raccontami il tuo assurdo, rendimi il tuo cuscino per ascoltare quei pensieri che fai solo prima di addormentarti. che faccia hanno i tuoi sogni? chi sono quando mi pensi? cosa provi quando mi vedi? e colpisco i sassi con le scarpe. muovo le mie preoccupazioni dove non tornerei a dormire se avessi altro. domani quando mi sveglierò forse potrò leggere una sorta di risposta. forse quello che mi merito è che le persone scappino senza dirmi nulla, darmi risposte. forse. che il paesaggio che vedo mi ricordi chi sono, quando lo sono stato. mi ripeto nel tentativo di essere ancora. me ne vado senza chiedere ancora. chi? il passato di qualcun altro, si affaccia sui miei ricordi. forse era qualche anno fa, ero un’altra persona. ora ricordo il modo in cui sorridevo, le risposte che mi davo. continuo a correre di forte impulso. tachicardico tentativo di affermare una crepa sul mio muro portante, nei miei più tentativi di distruggere quelle mura che mi obbligano. senza scheletro, adagio sugli avvenimenti. il corso del fiume, strada nuova. la pelle che si riscopre, forse quella stagione che non esiste più. mi guardo indietro, verso i miei domani, lasciati a chiacchierare tra di loro. chi sono nei confronti del mio ego? sparisco anch’io, lamentandomi di comportamenti altrui che poi faccio miei. mi rifugio negli errori degli altri, sterilizzo le mie iniziative. ricordati di quello che non mi hai detto, potrebbe succedere la fortuna di un’ altra occasione.
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bambini.
l’aria pesante si appoggia irrimediabilmente sui pensieri. la fatica si affianca al respiro affannoso. ogni mattina di questo passo il risveglio è zavorrato, reso impegnativo, mentre le energie come elettroni impazziti si dimenano senza permettermi di poterle utilizzare. mi appresto in cucina. egli cerca i miei occhi, il fastidio si produce nei miei gesti e la sua cultura si ingrassa ancora delle sue stesse sicurezze, ormai obesa. il mio parere non viene certo chiamato in appello, e sordomuto si fissa allo specchio. pone le giuste ombre per oscurare lo sguardo, cerca invano per gli occhi di nessuno di rendersi profondo e misterioso, piangendo se stesso con l’epicità del solo, nell’universo a senso unico, in quel percepito talmente impersonale da essere completamente circondato da flussi di pensieri irrilevanti, traguardi, desideri, rimasugli di speranze e occhiate rivolte al nulla, sicuri di un domani che non sarà domani. raggiante la confusione si rende protagonista dell’evolversi degli eventi tanto che la nostra stessa percezione da spettatori si scopre zoppa e i nostri passi si smarriscono nel loro ritmo. io stesso divento lettore del crepuscolo del mio creare, di fronte un immenso specchio nella stanza dove conservo tutto quello che ho fatto. di questi oggetti, di queste azioni, ne faccio puntini che ad istinto unisco negli innumerevoli percorsi. qualche ora dopo il risveglio la solita sensazione, che io ne abbia vissuto o che fosse solo un sogno? accomodati e parlami, ne ho bisogno anch’io del tuo assurdo. fecondo di un’idea, ne scopro le possibilità improvvisando una spiegazione che appare pensata, lo sguardo si volge ad una delle tue pupille un attimo prima che si staccasse dalle mie mani. lo sguardo del suo amico si appoggia sul tavolo a cercare in se stesso quei significati che hanno formato la sua personalità, egli giovine che ha bisogno di confronti per confermarsi. la stanza illuminata rende impossibile fruire del buio del cielo, come anime vuote patteggiamo sul campo di battaglia dei nostri istinti, con le nostre ferree idee sull’etica e la correttezza. finestre chiuse giammai il vento ci riporti a quello che siamo. domanda muta. sorriso oscuro. capolavoro teatrale. la mano che tenta di circondare l’avambraccio. ferire o ignorare la genuinità di un bambino. povero, che si scopre solo così spesso, fissa la luna sicuro di un riscatto che la sua anima gli promette forte, perché tutto torna e ne saremo le uniche vittime e gli unici fruitori. le tue stupende parole non riflettono alcune tue forse stupide azioni, ti stai perdendo tuo malgrado tra le domande che fai e le risposte che cerchi. mi pento di non averti accarezzata incapace di un’innocenza di intenti. l’ambito del mio vizio avrebbe scoperto dove sono affrontabili le sue forme sul tuo corpo. sicuro di dove potrebbe dolcemente giacere, sicura la lingua del suo corso di millenarie certezze. abbigliamento privo di equivoci. colori che tendono a niente da dire. le mani che vorrebbero dare sicurezza a quanto agli occhi viene regalato in vesti sceniche ben pensate. le età che non abbiamo potuto vivere, da bambini rinchiusi in punizione e mai usciti dalle loro stanze. senza i poteri dei ribelli da leggenda ci accontentiamo giustamente di quanto ci venga offerto, non essendo noi personaggi di un mito, non vivendo noi nelle pagina di una storia meravigliosa. continueremo a bagnarci i piedi nelle pozzanghere dell’acqua che abbiamo versato. siamo sicuri di quello che ci accomuna, e silentemente non possiamo non farne tesoro. creiamo spazio nella stanza dove da bambini siamo prigionieri e vi portiamo di nascosto questi tesori, quelli che saranno i ricordi di quando ci siamo incontrati. come nelle vacanze estive, che si incontrava la persona perfetta, che oggi o domani dovrà partire tra i “ma vedrai che ci rincontreremo.” una selezione capace degli sguardi da tendere al futuro, perché vorremmo che quei poveri bambini rinchiusi abbiano comunque possibilità di crescere. li facciamo scappare quando possibile dalle finestre, a vivere di quanto dovrebbe e potrebbe essere normalità, sulle basi di chi è sicuro di cosa ci vorrebbe per se stessi, con la sicurezza di chi vive senza leader. quindi non è oggi che si cambierà. come possiamo dirlo che sarà o no domani. cerco di perdermi in una sala cinematografica, per quanto possibile, cerco di rievocare quello che desidero durante le vibrazioni dentro la mia pelle mentre tutto è illuminato solo da quanto ho deciso di proiettare, al silenzio di una città che come le altre è fonte di scapestrati a cui viene dato il diritto di essere mentre sono piene le stanze dell’ovunque di bambini in punizione. potremmo aver scelto di non comunicare perché sicuri di non essere capiti. potremmo aver scelto di far finta di dormire per non essere disturbati. potremmo far finta di essere quello che siamo per sempre, morendo nella stanza accanto a quella del bambino in punizione, lasciandolo orfano delle sue uniche speranze, alla mercé del vuoto, a urlare al nulla, scolpendosi su un’anima già mappa di un vissuto incredibile e pregno. ascoltiamo le sue lacrime finché siamo in tempo, regaliamoci al vento.
centocinquantuno.
come al solito sono le consapevolezze ad uccidere i miei sogni. le dimensioni perfette dove tutte quello che accade ha forte senso di essere e, soprattutto, non è affatto assurdo. la posizione perfetta quando il letto è vuoto e nonostante le coperte non sa come riscaldarsi. la traduzione delle espressioni è intraducibile. lenta la vibrazione si estende all’accanto; ossimoro vissuto, cucciolo che non ha mai potuto mordere giocoso i suoi vicini, mai è riuscito innocentemente ad appoggiarsi su un naso altrui. il traguardo è prefissato in quell’ignoto già definito e più volte analizzato. la fatica di prostro nei confronti del percorso è il corrispettivo di come le abitudini che ci hanno insegnato siano la gabbia che ci permetta di agire secondo conseguenze prestabilite da un procedersi governabile. come marionettisti che lavorano senza poesia, senza coscienza dell’obbiettivo della finzione per cui faticano. senza i colori della sicurezza di una stagione sempre più litigante con i calendari, mentre l’universo corre verso i suoi perché. il silenzio mi regala la visione di una certezza, la percezione di quanto sia tutto a dispendio delle mie energie, della mia pazienza quand’è che i ponti comunicativi si pongono come ostacoli all’esprimersi per la sua realizzazione, all’essere intesi. nessuna tragedia che si racconti da sola. i fatti si possono mescolare solo con la quantità di frottole messe a roteare attorno, accostandosi anche non solo foneticamente alla parola trottole. impazzite cercano di colpire e smuovere violentemente l’intorno senza curarsi della reazione, senza curarsi di cosa contenga l’armadio della stanza che vogliono abitare. e io mi sento prezioso al confronto. perché appunto paragonando la persona ad una stanza sempre ho cercato di non abitarla se non potendo aver rispetto di quanto ci fosse nell’armadio; perché non è mai neanche un affitto, è una semplice concessione di utilizzo di uno spazio in un tipo di rapporto dai/ricevo. mentre colleziono cataloghi di abbigliamento altri collezionano mesi passati in queste stanze. mi vengono affidate le custodie di molti di questi abiti, di più tipi, su più fronti, ma mai ch’avessi potuto passare una notte dove magari dorme qualcuno che neanche sa. e vedo l’inconsapevole rivestito di fortuna che non viene riconosciuta, meno bendata di quanto non sia il suo beneficiario, e si ferisce il lato più giovane di me, indifeso e sincero, a cui così poco basterebbe rispetto a tutto quello che ha fatto correndo qua e là. e se non l’hai visto correre o non te ne ha parlato tutto sta al suo essere gentile, mai ti ha portato in questo il peso del suo amare, con l’eleganza di un fenicottero che si abbevera al tramonto. la fase della ricerca dell’equilibrio. un tentativo di instabilità vuole emulare il sorriso di chi nasconde fantasmi enormi. le passeggiate attraverso il nulla mentre si attende che la porta della conclusione prenda forma finalmente agli occhi. dopo ogni giorno è domani, un domani che si concretizza non sempre allo stesso battito d’orologio, perché posso essere cresciuto anche un giorno che non sia stato il mio compleanno. solo in pochi hanno incontrato i miei occhi. dei mie tesori non so che farmene, non avendo neanche certezza che questi valgano qualcosa. mi sento sprecato giorno dopo giorno a guardare le ore che passano e le persone che lanciano le risorse fuori dalla finestra. quante volte ho visto uomini disperati recitare che questo non era assolutamente vicino a quanto sognassero da piccini. non voglio avere i ricordi annebbiati da quanto non sia riuscito a fare. voglio continuare a schiantarmi contro i muri che mi hanno tatuato la pelle, occasioni in cui non ho dovuto prendere appuntamenti e pagare. sempre a cercare l’evocazione suprema dell’empatia pura, del richiamo allo spirito che sa accomunarci contro e lontano ogni derivazione culturale del cazzo. il principio della caduta verso l’abisso che ci ha generati. non svegliatemi finché non sia ora. le distrazioni dei convenevoli sono coltellate tra le costole. come anche la mia immaginazione sa ferirmi. e mi fa vedere anche tutto quanto io vorrei che non ti accadesse, non mi accadesse. il collare che mi impone gli sforzi. le camminate, le pedalate che ho fatto per cancellare i miei desideri. non esiste niente di più bello. non esiste forma più adatta. non esiste capolavoro più sensato al mio io. non esiste forma più consona. non esiste sorriso più desiderato. non esiste cammino più confortante. non esiste altrove quell’attimo eterno a riempire le vene di quanto gli necessiti al giusto ritmo. non esiste modo migliore di svegliarsi, colmi. non esiste soddisfazione più ampia. non esiste colore più adatto. non esiste maschera più appropriata ai lineamenti. non esiste trasparenza più sincera. non esiste tonalità più afrodisiaca. non esiste sguardo più interessante. non esiste ragione più trascinante. non esiste amarezza più vissuta. non esiste un corpo così magnetico. non esiste altra bellezza più capace. e allo spazio di un niente, guardandosi poco dietro le spalle, lo sguardo che si affloscia nelle ombre e si ricorda che ad ogni modo, adesso, semplicemente non esiste.
incontro.
il favore che chiedo al tuo ritmo di non danzare con me. sono rimasto d’accordo che saremmo rimasti d’accordo così, nella mia immaginazione aveva tutto senso e le nostre risposte si sarebbero dovute incastrate l’un le altre con quella tipica precisione d’intesa esistente nell’esclusività dell’unica mente pensante l’attuazione stessa della fantasia perfetta. è bastato un sorriso appena ci siamo incontrati, bello e diverso ugualmente al vaneggiamento tanto sognato. l’equilibro si perde nella ricerca della sua coda, urla il suo nome, si agita alla ricerca di uno specchio. precisa la consapevolezza dei differenti punti di vista dimenticati si insinua negli acidi dei muscoli del sorriso, e la mia preoccupazione si ripara sotto le spoglie della gentilezza, perché, piuttosto che dimostrare alcuni dei miei principali impulsi chiaramente, il rispetto e il perbenismo accolgono le incertezze espresse altrui, e i conosciuti impulsi tipici dell’esprimersi mimico e gestuale, lontano da una reciproca e comune capacità d’accordarsi, portano in trionfo giustificazioni e ideali inespressi, che si vogliono difendere solo perché talvolta troppo ragionati; sembrerebbe proprio indoveroso doverli abbandonare adesso o nell’unica occasione che ci si è presentata per confermarli. il ritrovo non cambia faccia. il suo anticipo e la sua ricerca vi si infittiscono a vicenda, giocano a nascondino, e si riscoprono sempre sorridenti e con la voglia dell’altro. mi sveglio alla mattina che i miei desideri sono rimasti orfani, dal padre che li genera e dalla madre che li ha fatti crescere. nessuno chiede niente all’altro. ci guardiamo negli occhi, in quel momento in cui io cerco di tendere all’infinito, a tutto quello che non ho potuto o voluto esprimere. quell’unico momento in cui ci siamo dimenticati tutte le complicazioni che abbiamo incontrato sul tentativo di sviluppo delle nostre illusioni. si creano i doppi mondi che ci sanno ricordare solo le certezze di cui siamo gli unici padroni. è più semplice mentire anche a noi stessi servendoci degli altri, perché almeno non saremmo gli unici garanti delle nostre perversioni. ce le presentiamo a vicenda, così quando sarà occasione le definiremo con meno vergogna, con la sicurezza dell’ascoltato. poi scorre veloce la sicurezza, ce ne andiamo entrambi che siamo arrivati ad un dunque, ma il domani nasconde la naturale rielaborazione pseudo spontanea del sempre. cerchiamo di definire i limiti dei nostri qualcosa. facciamo avvicinare quello che abbiamo visto insieme alle nostre abitudini linguistiche indefinite, di comune uso. prende forma il principio dell’indietreggiamento. a servizio del nostro bisogno di nulla ci riempiamo di impegni, cerchiamo appositamente di respirare a fiato corto, perché il fermarci ci da vita, e la nostra società non ci vuole vivi. all’attenzione delle scoperte consapevolezze mi vesto elegante. espongo le mie bellissime disposizioni da gentiluomo sulla carta più bella, e ne faccio un dono di tutto punto, di chi ha saputo fare quel gesto che certamente non verrà colto con la carica tipica della finzione. sarà un grazie tirato con sincerità. oggi e domani si incontrano in una dimensione che non volevamo conoscere. niente è il tutto che ci regola. i nostri respiri si prendono carico del peso del loro stesso sostentamento, che sarà minore di quello che offrono, e gli verrà fatto presente che tutto questo non è accettabile. è il buio l’unica dimensione in cui abbiamo modo di conoscerci, e abbiamo quella materna sensazione di poterci nascondere al suo interno, dove i nostri colori non subiscono le troppe e numerosissime influenze dei tutto. cerchiamo lo spazio che le nostre idee meriterebbero. cerchiamo di nasconderle con una mano e di mostrarle con un’altra. niente alla faccia dell’accettazione a disposizione della pazienza stessa. se siamo due unità alla ricerca dell’altra cercheremo di dichiararci per quello che siamo, difendendo la forza pura generata dal nostro amore. siamo noi il nostro niente, di noi ne facciamo un tutto. e quando tutto dovrà essere niente, un tutto di niente prenderà possesso della memoria esaurente della nostra percezione. cavalieri di noi stessi, non avremmo patema di attendere per mesi delle risposte che vadano ricercate con imbarazzo, con innocenza. a favore di un complotto che non esiste. iniziamo a fare girare delle voci, queste prenderanno le forme che vogliono. su queste nasceranno delle storie di cui non ci interesseremo direttamente. niente ha il valore del nostro tutto. noi non ci accorgeremo di niente. tutto prenderà forma ognuno partendo dal proprio niente. l’interesse reciproco ha sede nei forse, nei sogni che facciamo passare per veri, quando ti fanno le domande importanti. ci accorgeremo della realizzazione dei nostri errori intuiti alla loro concretizzazione, dopo averli visti maturare, con la certezza di averli riconosciuti e, mentre questi crescevano, metaforizzavamo con le crepe tipiche dei cedimenti. silenti e fondamentali, come le domande sul domani, che non ha forma perché non l’abbiamo esperienzato. ci coloreremo con il niente che abbiamo trovato, e solo chi avrà la sensibilità del tutto si accorgerà del nostro sincero sorriso timido.
oggetto: “sii gentile, perchè ogni persona che incontri sta combattendo una dura battaglia.” platone
ricordi? parlavamo delle volontà dell’immaginazione. ascoltavi tutto quello che dicevo mentre ti guardavi il petto. non erano gli unici due motivi per cui entrambi eravamo seduti a parlare. mentre cerco di mantenere lucida la mia dialettica so esattamente cosa vorrei che accadesse in quel preciso momento. ti fisso, mi aggrappo con le unghie a quel senso di rispetto e di non invasione della tua dimensione. cerco di mantenermi lucido ad ogni battito cardiaco che si ripropone mentre la testa si chiede a cosa stai pensando, cosa stai sentendo? cerco oltremodo di distrarre i miei pensieri dal flusso capace della mia razionalità, ma sei veicolo di qualcos’altro di assolutamente protetto dai tuoi occhi; non smetto di chiedermi cosa veramente desidereresti in quell’adesso e se e cosa ti stia creando un problema nel mio fare, perchè dopo ci ripenso e spesso il mio istinto prende la forma delle mie certezze, ed il mio “sì” alla tua domanda conosce benissimo il suo significato esistenziale, ed io invece ne rimango vergine, senza forse più aver la possibilità di conoscere cosa ti stia succedendo. un grave rammarico.
dove ha vera origine l’esigenza di nascondere certe cose che voglio scrivere? voglio scriverle in modo che non si leggano o non voglio che nessuno legga che certe cose ho avuto voglia di scrivere? dove trovo l’esigenza di nascondere l’impulso di esprimere?
capolavoro nella delusione, guardare quanto si calpesta solo per essere sicuri quanto di sconvolgente la mente ci abbia regalato. seguo con i pensieri il percorso che ho segnato. faccio fatica a ricordarmi tutto ciò che mi sia venuto in mente a riguardo mentre parliamo, perché quando penso non sono distratto da te. è un capriccio continuo il dovermi ritrovare dove e come sono. non mi alzo. non conosco dove e quali siano più quelle energie che mi permettevano di reagire. sono concetti che si sono allontanati dal mio sentire le cose. cerco di ricavare la forma originale del delirio che mi affronta. ne ricavo la sensazione dall’astratta beatitudine del cielo di notte con di fronte il mare scuro e completamente buio. la sabbia fredda e l’aria mettono a nostro agio la percezione del qualcosa. siamo soli quando facciamo dei sogni. non è detto che questi siano anche di altri.
di sincerità portiamone in avanzo.
roma, dicembre 2012.
sé; tu.
ripiego sul conosciuto sentire. la lontananza ai miei sensi allarga come restringe gli orizzonti. certi distacchi nascono dal forzato scostare un problema, che sia un rimando o che sia espressione di un’incapacità. ne emerge soprattutto l’operare alla bocca dell’intestino, e quanti di questi momenti a rodere l’insicurezza; l’acido che cerca di digerire dei pensieri non può quindi non operare fisicamente su dove si esprima, e quanto nei dubbi poi ne deriva. trema la corazza del famoso guerriero che non ha mai combattuto, le quali capacità e forze ne vanno di quanto s’è sempre narrato, basandosi su di che non sempre principiò dalla mente dello stesso; semplice vittima dell’espressione del proprio sguardo, del proprio io. è iraconda la reazione a sfavore del proprio corpo a sostenere l’impiego, viene maltrattato nonostante sia l’unica fonte di linguaggio non verbale a permetterci di sentire e capire che in questo momento qualcosa non va. si ferma allo specchio, non può non lavorare sulle proprie chimere, esercito che sputa fuoco su chi crede di conoscerlo. gli arretrati si accumulano e ne risente, lo status malato trascinato a peso morto per i capelli, bagaglio scomodo sempre allocato alla propria presenza, necessità per una demone che si controlla. tale fatica ne propone la forma, quell’anima descritta dai tratti di una sofferenza quasi invisibile. forte quanto sensibile, racconta a se stesso il tentativo di scoprire la verità delle cose, smascherando quella che quotidianamente viene raccontata e spacciata per tale. ogni tanto sentendosi ingenuo si chiede dove abbia lasciato quanto gli permetta di non sentirsi abbandonato. egli è capace di raccontarsi molte favole, curioso di cosa il proprio limite gli possa offrire, da quel corpo che tanto odia e sfrutta quanto ama senza soste, cosciente del valore di ogni suo respiro. obbietta la vera presa di posizione nei confronti della costruttiva accettazione dei propri errori, continuamente cerca l’appoggio di quello spirito ai suoi occhi nobile che lo possa sostenere perché sempre ripone a camminare su quella linea scomposta che si affaccia sull’abisso che tanto lo affascina quanto lo consuma. lettere continuamente spedite a quel vuoto, lo sguardo eterno perso quand’è che non può affrontare gli occhi che sempre affannosamente cerca. egli si lamenta di ogni cosa, conscio del non saperti descrive il peso che aggrava sulle sue palpebre e quanta fatica si possa porre al perenne mantenerle aperte.
sempre parliamo di quanto sia cosa e quanto faccia come; come in ogni momento una grossa porzione dei nostri pensieri si concentra su un qualcosa costantemente attraversato da un’esclusività tipicamente soggettiva. poi succede che come poche volte rispetto al sempre gli occhi si incontrano, forse completamente, o forse sempre concentrati su uno dei due soli e reciprocamente. in quel momento magari non sei convinta dell’esposizione del tuo corpo rispetto al muro espressivo che te ne pone quesito. collaboriamo alla costruzione del nostro io, entrambi; ma c’è molto altro. come avrei potuto non ottenere lucidamente l’offerta scenica del tuo posare? e quanto me ne chieda sul tuo porti certi quesiti senza parlarne. ne prendo appunto per la descrizione di qualcosa che mi impongo di vivere, che infila motivazioni allo stare immobile quando gli occhi sbarrati si abbandonano alla proiezione dei sogni a luce spenta. la temperatura del corpo è la dimensione che vogliamo vivere, e la sua nudità ne è mezzo unico. impossibile è bypassare quell’impulso risvegliato dal tuo locare, mentre descrivo quanto mi ha reso inerme. colleziono il vero sapore di una verità che va pagata cara, essendo merce di inafferrabile valore. attraverso il tuo ridere sono sicuro che in quel momento tutto abbia senso, e allora, dei miei problemi, in quel momento, faccio l’errore di dimenticarmene.
fuoco.
mi chiedo a cosa debba assomigliare in questo momento un cambiamento. potrebbe voler essere la degna conclusione a tutti i tentativi apportati, alla grossa fatica fatta e pensata. la classica conclusione che diventa inizio, quello che vuole essere il poter esprimere quel lato a lungo represso che non ha più sede nel corpo dov’è intrappolato. lo stato febbrile accompagna l’accettazione, la temperatura della testa testimonia la malattia di certi pensieri, il depuratore di idee ha bisogno di molta energia, e approfitta della debolezza a cui mi sono imposto non mangiando, cosciente di quanto sia importante un po’ di ordine ogni tanto. muscoli indolenziti. l’acqua calda mi ripropone la realtà. metto a cuocere i miei sogni, questi, che non vogliono essere mangiati, pretendono sì la mia attenzione, io così distratto da quello che mi dicono debba fare e quanto invece non faccio; custodisco tutte le risposte che mi servono, te ne propongo alcune su un vassoio neutrale. alcune ho bisogno di sentirmele ripetere, far si che i pensieri acquisiscano come una dimensione solida. altri li temo e li combatto buttandoli al fuoco, e questi ritornano e io li brucio ancora. un giorno saremo seduti sulla stessa tavola e coprirò l’aria di talmente tante vibrazioni da non poterci per nulla sentire; permetteremo alle nostre smorfie di fastidio a completare i convenevoli, saremo consapevoli nel silenzio dell’intimo pensare di quanto abbiamo bisogno dell’altro. per accettare molte cose ho avuto bisogno di rinnegarle per anni, e quando incontro questo fare nei tuoi occhi ne sono sia felice sia triste. mi preoccupa quanto lungo possa essere il tuo percorso, lo sono perché ho piena convinzione di dove tutto dovrà finire, e io sono al traguardo ad aspettare la fine della tua corsa. ti ci potrebbe volere un minuto, ma il cervello insegna quanto una cosa vada vissuta prima di renderla effettiva alla percezione nel quotidiano. il mio corpo mi ha detto molto a riguardo, ed il mio silenzio si costruisce sulle consapevolezze dei traguardi raggiunti, dei respiri profondi, mentre i sogni tendono sempre a buttare aria al proprio mulino, mi confondono continuamente, mi dimostrano come tu sia perfetta al mio concetto onirico stesso, e la mia fortuna rimane quella di conoscere la tua perfezione reale; si propone una fusione di intenti, il corpo e la mente vogliono raggiungere l’equilibrio tra l’ideale ideale e l’ideale dimostrato, e quella dimensione luminosa sul tuo iride ne è una mappa nitida. non continuerò a rifugiarmi dietro la mia stessa ombra, metterò in pratica quell’unico modo che mi piace di illuminare il mio viso che mi nasconda leggermente gli occhi, i quali arrossirebbero al primo tentativo d’attacco subito, l’ombra li sa proteggere e li mostrerei solo quando devo parlarti di cosa credo sia la verità, il resto lo lascio sparso per le strade, per le stanze e per tutti quei dove mi capiti di passare o più facilmente lì dove sono più abituato a vagare. lascerò quei segni come pitture rupestri, chi saprà leggerli saprà capirmi, e un giorno prima o poi sono sicuro che ne parleremo. vado ad urlare nella stanza in cui mi è permesso farlo, dove la possibilità di isolamento mi permette di alzare il volume. impugno gli strumenti e concentro la forza in quello che va dal basso ventre fino al corrugare della fronte. pongo i miei segreti a frequenze fastidiose, eccito la mia percezione a sensazioni che la musica non ha attraversato del tutto negli anni. prendo appunti, guardo fisso l’ipotetico vuoto e svuoto i bronchi. mi viene facile immaginare il tuo sguardo addosso a cercare di capire. l’immaginario derivante è una dimensione personale del tutto poco accessibile. non so se ti sia mai capitato di essere solo in una stanza a non poter sentire neanche quanto tu stia urlando. ecco, mi è difficile fartici immergere. anche per questo che nessuno solitamente è invitato a parteciparne. è in quella dimensione che le mie energie si concentrano dovutamente all’unisono della forza che le produce. è un eterno ritorno del proprio io che si descrive. la massiva via di comprensione dei viscerali impulsi. focalizzo quello che c’è tra me e quanto otticamente posso realmente mettere a fuoco. prendo coscienza dell’aria che si muove. immagino numerose dimensioni meccaniche a danzare il mio assurdo, dalle rotazioni incontrollate di moti perpetui, al cardiopatico battere di martelli su un ipotetico concetto di calma. delirio delizioso di un anima antica. dimensione perfetta della sincerità di un intelletto isolato. nessuna novità sul fronte della ricerca espressiva, in un certo senso. da anni ci rifacciamo al più tenero abbandonarci, sicuri del successo talvolta anche del cooperare, quando faccio rumore insieme ad altri. sorridiamo della stessa amarezza, siamo contenti se quello che vogliamo dire lo facciamo in modo netto, lucidamente cupo. proviamo a dare voce a quelle cose che proviamo in silenzio mentre passeggiamo. pretendiamo di essere portavoce di un grosso insieme di sicurezze costruite sugli errori, sui malesseri e su quanto negli anni abbiamo scoperto mentre giocavamo insieme. il cielo si colora come non mai, spero succederà anche a me.
fuori.
tradisco le mie illusioni, mi lamento di un passato che non è esistito per sentirmi a mio agio in un presente che non ho sentito arrivare. ha bussato alla mia porta solo la noia di tutto quel tempo che non ho saputo impiegare, e la consapevolezza incerta di tutto quello che sprecherò. sento i tuoi occhi unirsi al mio immaginare. credo nelle tue fatiche. mi viene naturale amarti.