preciso.

nessun ombra accanto alle mie riflessioni. è ora di cercare un luogo dove abbia senso il mio cercare silenzio. trema lo sguardo del bambino al mio passare, non sono come le persone che è abituato a vedere in televisione. tengo la mia inespressività fissa sui suoi occhi, avrà qualcosa cui pensare forte in un futuro in cui non ci incontreremo. allo stesso tempo mi allontano da quelle vie piene di sorrisi che mi portano a fatica a riconoscere quelli sinceri. tolgo la polvere ad alcuni miei pensieri ma sono ancora nuovi ed in ottima forma, non c’è motivo di buttarli. guido verso il mio punto di partenza, e gioco solo a far si che il viaggio possa essere lungo quanto basta, ed ogni giorno cambia. qualcuno mi sussurra che sto facendo bene e che tutto questo sembra darmi forma, ma non potrò mai fare a meno di sentirmi lento e rinchiuso in una scatola. regalatemi uno spazio, è quanto di più abbisogno. è un cerchio alla testa quello che ne deriva dalla condivisione di spazio con questo finto entusiasmo così diffuso. rispettiamo le volontà del tempo, la notte comunque saprà accoglierci. aspetto il tuo respiro sul mio collo, forse un giorno sarò tranquillo.

 

august.

cerco e spero che astrazioni corpose raggiunghino i miei pensieri. sono affaticato e appesantito al risveglio da idee che non mi appartengono. le ossa costantemente erose dall’afa. figlio di uno sguardo non donato aspetto l’illuminazione delle mie gesta, mi confondo da solo nel tentativo di stupire il nessuno che custodisce la mia integrità. siamo arrivati a un numero esiguo di partecipanti, vi prego di sedervi e attendere che le energie producano un inizio. riscopriamo cosa ci ha permesso di affrontare delle scelte. abbracciamo chi se lo merita, il gesto ci regalerà serenità. non è mai troppo tardi per cambiare radicalmente le cose. anche se la percezione è altamente ingannata dal trascorrere del tempo, dall’evoluzione che le possibilità hanno deciso di evolvere in cooperazione con le idee, incrementando i disturbi che non ci fanno sorridere più spesso. sorrido comunque per evitare un sacco di domande, ma i miei occhi si portano dietro tutto un dizionario non troppo complicato da decifrare. non faccio notare a tutti che c’è qualcosa che non va. vorremmo tante volte noi tutti abbracciarci ma ne siamo imbarazzati. i nostri timori abitano le nostre azioni più delle nostre idee, non possiamo permetterci di morire così. porgi lo sguardo sul lato opposto a dove sono io, le tue labbra si muovono, i tuoi occhi roteano. mi chiedo cosa pensi di me. fortunatamente siamo abitati da dubbi. non ho fatto finta di niente quando mi hai chiamato in un modo definente quanto lontanamente sarebbe nelle mie intenzioni di partecipare alla tua esistenza. non posso impormi di farti pensare niente. farti sentire bene, questo sarebbe un traguardo. raccolgo tutto ciò che continuamente mi cade dalle mani, sto continuamente pensando a qualcosa del tutto distante da quello che faccio. non sto scoprendo niente di nuovo, ma sempre più convincentemente deduco che cogliere l’attimo a scapito degli impegni è la mia tattica. la collezione infinita di vissuto improvvisato mi ha regalato la saggezza che se non avessi certo invidierei. un sacco di persone si sposano; ho bisogno di una boccata d’aria.

ogni tanto un colpo d’aria salvifico ci accarezza il viso, e continueremo ad innamorarci d’illusioni.

yesterday you said tomorrow.

alla nostra età dove saremmo voluti essere è diverso da quello che i nostri coetanei hanno sempre vissuto. ci siamo fatti ingannare da quello che abbiamo letto, dai dischi che abbiamo ascoltato, ma fortunatamente abbiamo capito prima di tutti che quanto davvero è nostra necessita sono coloro che amiamo. eravamo su un prato montano, sotto le luci della sera a fare il resoconto di una giornata confusa. la mia era partita su una spiaggia completamente innevata, non si capiva che stagione fosse. privo di qualunque talento musicale abbraccio un ampio numero di strumenti, lo sguardo si alza e tende a sinistra. aspetto quel momento che non sono sicuro possa veramente esistere, e intanto rimando ancora una volta.

sputo.

lo spiazzo di cemento vasto ospitava i nostri discorsi. passeggiavamo entrambi fissando quella precisa distanza dai nostri piedi nel vuoto. con imbarazzo tendo il tono della voce perché di certe cose non s’era mai parlato insieme. sorrido ma non mi guardi; non ti guardo ma la mia voce consiglia quel sorriso solo, poi mi giro e i tuoi occhi allargati mi danno conferme. sono cose che ancora non conosco, ma l’intuito mi dice bene, non posso non fidarmi adesso. non ho capacità di capire cosa stai pensando, e i tentativi vanno per esaurirsi. ti sto accompagnando dove custodisco il silenzio; dove i miei segreti sono arredamento. devo distrarmi per riassaporare le mie intenzioni, intanto siediti e disegna i tuoi pensieri. mi tornano in mente tutte le fotografie che non ho fatto. il peso della mia pigrizia non mi rallenta, diventa giudizio in cooperazione con il tempo. mi guardo attorno e ce ne andiamo. domani non troverò una scusa in tempo per essere dove sei anche tu, ti guarderò con lo sguardo di chi vuol fare finta di niente, di chi deve sembrare indaffarato. camminerò di fretta e appena dopo il primo angolo non potrò più tornare indietro, a meno che non trovi stavolta una scusa adatta, ma lo sappiamo tutti che non funzionerebbe. continuo a camminare immaginandomi continuamente quella mano che mi blocca tenendomi la spalla. cos’hai da fare? niente.

mi ritrovo in quello scenario che ho sempre criticato. apparteniamo a quanto non desideriamo. il nostro concetto di libertà è fortemente corrotto.

legno.

assuefatto al bisogno di avere qualcosa da fare l’istinto mi consiglia di diminuire le frequentazioni di quei posti che permettono alla mia stanchezza di prendere carica dalla noia. devo sentirmi valorizzato e devo farlo lontano da intelligenze che agiscono per fini contrari alle colonne delle mie motivazioni, devo fare uno sforzo di sincerità, che non si dimostra tale, in questo periodo in cui una risposta acquisisce automaticamente la forza di un’idea indipendente. speriamo che queste grosse nuvole grigie portino acqua, e rinnovino il mio immaginario che talvolta esprime ossessive ridondanze. conto i passi degli altri, osservo il cielo cambiare colore incapace di concludere nulla e, diversamente dal mio solito, non riesco nemmeno a provarci. in un contesto estraneo alla mia immaginazione remo a braccia verso una concezione di spazio che non ho mai avuto la fortuna di abitare. diminuiscono i numeri di sorrisi e allo stesso modo non permangono quelli veri. quello che sto cercando è anche un luogo di riposo dagli sguardi, dalle idee altrui, dal dover continuamente rendere conto a qualcuno, a qualche concezione già discussa da qualcuno che non conosco, spesso totalmente isolato da un tipo di realtà simile a quella che vivo. il quartiere si riempie sempre più spesso di lamentele. limpida, la mia confusione mi regala momenti di certezza, a sorpresa delle mie premonizioni. rimuovo i tentativi di persuadere lo sconosciuto, mi concentro sulla totale astrazione dei miei desideri e inseguo il ricordo di visioni che non ho avuto il coraggio di scrivere. fisso l’unica via d’uscita e forsennatamente con lo sguardo inseguo l’impraticabile alternativa. la mia totale insicurezza mi spinge a costruire percorsi logicamente lontani dal senso delle altre costruzioni. con le dovute collisioni che ne derivano, è la forza della quale vive il mio umore, inserito in un contesto che non può appartenermi.

pezzo di cielo.

è il mio occhio nell’oscurità, che sa gioire dell’attenzione su di esso accentrata dall’unico spiraglio di luce che lo descrive. muovo lievemente la testa e cerco di far acquisire bellezza alle ombre che vi si poggiano. sembra che io sia qui a richiamare l’attenzione e basta; come ho fatto allora ad immaginarmi di fare quello che vorrei fare? è il silenzio invernale quello che mi ispirerebbe, dove sarei sicuro di riconoscere chi fa le cose per finta e chi si meriterebbe quanto non ha. una bellissima fotografia, il ritratto di una speranza che ha sempre e solo vissuto nel mio silenzio. ho giocato le ore da bambino dicendomi che nessuno avrebbe mai dovuto scoprire i segreti delle mie fantasie. ho custodito la mia personalità come una reliquia, senza affibbiargli ridicoli significati extra umani. non posso rifugiarmi in definizioni da vocabolario per spiegarti il più precisamente possibile quello che sento, mi basterebbero delle immagini che non so ancora come poter girare. è inutile che ti descriva il mio sorriso quando potrei solo mostrartelo, anche se non so da dove iniziare. soggiogato da potenzialità che potrei far fruttare mi rinchiudo in un angolo, e aspetto che il vento mi sporchi il viso. mi affido a quello che dovrebbe succedere se mi convinco di non porre le mie energie alla modificazione degli eventi. non posso mentire quando sono davanti allo specchio, eppure, talvolta, mi chiedo veramente se io sia solo o meno. quello che le mie mani vogliono sentire consiglia la tua presenza. devo fare lo sforzo di prendere a schiaffi i freni che la mia educazione pone ai miei desideri, devo essere coerente con le mie sensazioni, sarebbe poco elegante impormi d’impazzire. raccolgo adesioni da tutti gli organi. lamento sempre meno riguardo i ritardi della mia razionalità; pedalo forte proprio per mettere sotto stress i miei pensieri, e allenarli allo starmi dietro in un periodo così importante. cerco di disegnare percorsi terapeutici per la mia esigenza di simmetria. cerco l’odore della mia pelle, la forma delle trame dei miei occhi. rendo ruvido il mio commento al tempo, affacciato verso l’impero di cemento non ho prospettive di consolazione. mi sta divenendo difficile trovare punti di riferimento nell’immensa tempesta che mi impone un equilibrio instabile. serio mi impongo di non fare troppo tardi, è già sera e i nostri tempi non sono uguali. perdo volontariamente tutto quello che mi sono portato, devo camminare libero e trovare spazio a quello che voglio riempia la mia attenzione. devo concretizzare il mio desiderio di te nel mio tempo. non posso diminuire la tensione, devo viverla e riassumerla in un respiro lungo, cosciente del sentiero prescelto, che, finalmente, ho avuto il coraggio di affrontare. ce ne stiamo tutti zitti e nello stesso spazio e dovremmo renderci conto che ognuno di noi con lo sguardo nel vuoto sta vivendo un mondo potenzialmente esclusivo, dobbiamo tenere conto della responsabilità di un nostro sguardo. cerco di fare il punto di una situazione piuttosto distesa sullo spazio, spalmata in tutti gli ambiti che poteva intaccare; la mia mente non vuole prendersi un carico più grande delle sue abitudini, ma il fascino dell’ostacolo richiama forte in ogni momento, ad ogni ora, contro ogni apatia. non conosco traguardi che non siano i tuoi occhi. è il pensiero di quanto contengono deve essere il mio carburante, e come alcune donne del sud dissero, ti chiamerò pezzo di cielo.

invidia, subito doppiata dalla tachicardia di una certezza.

se abbiamo sorriso anche solo una volta siamo sicuri di camminare in mezzo agli stessi flussi energetici. scriviamo, noi tutti, dello e nello stesso immaginario a cui affacciati cerchiamo il nostro futuro. ci facciamo vedere sorridenti per assicurare che in noi tutto va bene, così chi ci guarda potrà prendersi la libertà di pensare che in noi c’è qualcosa di acquisibile. ho fatto inventario di tutti i dissapori che il mio cervello sa farmi vivere, li ho archiviati in un cassone: ho letto e riletto i presunti patemi, ho dato retta al tremare delle gambe, questa volta era il tempo di capire cosa fosse in grado di muovere quel mio lato rimasto ragazzino. non mi sono guardato allo specchio interrogandomi chi fosse quella persona che mi prendeva in giro, perché oggi so che questo realmente mi chiedevo. il traguardo non esiste, questo mi rispondevano i miei occhi. la verità non è quantificabile se non in quello che credi, sempre che tu ti ponga capace di discuterlo con costanza. quel tuo io che hai solo intuito e che ogni tanto ti ha dimostrato la sua forza è una bestia capace, che attende il suo tempo e che pecca spesso d’eccedenza perché costretto ad uno spazio espressivo ridicolo, ma fortunatamente senza palco. riflessi sull’acqua che si muovono piano e solo a distorcere quelle certezze che la tua razionalità ha bisogno di portarsi dietro. siamo tutti combinati male e abbiamo tutti voglia delle stesse cose. certo, consideriamo il nostro insieme e chi facendone parte ci permette di non abbandonarci completamente alla misantropia del nostro io, all’abisso di quel pozzo da cui non ci rendiamo conto di bere molte volte. un saluto alle mura che hanno covato i nostri ricordi, che ci hanno permesso di giocare e sognare quello che non saremmo voluti essere una volta grandi. i palloni di plastica che sapevano di morte e il nostro squarciarli sotto il sole che temprava le nostre energie che ad alcuni consigliavano manifestazioni d’irriverenza, ma si sa, signora, che i tempi cambiano e le vostre esigenze sono state spazzate da mezzi più forti della vostra educazione. calpestavamo i fiori perché ce ne erano in abbondanza, non ci saremmo mai potuti porre il problema che un giorno avremmo potuto non vederne più se non in plastica nei nostri salotti con i mobili usa e getta. il tramonto non è venuto per ucciderci, non dovremmo temere la sua presenza mentre i nostri piedi nudi colgono l’importanza di quello che ci è mancato. noi, non conosciamo il limite dei nostri limiti; e chi si ferma al principio di questi, mi rimanda a una distesa d’immagini raccolte negli anni di persone abbandonate da se stesse su sedie di vimini e vestite dei tessuti della nonna della nonna, con quel bagaglio di conoscenza manuale che è quanto di più sono capace di invidiare nel mio essere giovane e lento nel trovare una strada in quella società che non ci sa far stare con i piedi per terra, che non ci permette di seguire quel sentiero che ci ha ispirato. si alza un alito di vento e subito tutti hanno freddo. mi si incrociano gli occhi e la testa tende al mio petto, gli occhi latitano dai principi del proprio senso, mentre tutti si svegliano e iniziano a vivere la definizione di giornata. questo non mi permette di collezionare ricchezze che possano testimoniare il mio essere in questo mondo, ma mi sento più ricco di molti, nel mio cibarmi degli istinti di alcune idee. forse mi sono offeso, nonostante giurai che di rado sarebbe mai stato possibile. la collezione di sguardi che non ti ho regalato è custodita con la chiarezza del colore dei miei occhi, che descrive la trasparenza della mia anima, e l’emulazione del mare quando mi muovo. se potessi parlare di quello che vedo ad occhi chiusi, capiresti perché non ti posso rispondere mentre investito dall’acqua nel buio dell’altrui esistere. chi ci accompagnerà quindi nell’imminente disastro di cui abbiamo solo assaggiato il potenziale? chi si è dimenticato il mio nome? sembra non sarò più in grado di mantenere un certo passo con la forza di una sola persona, è per questo che ti guardo. sento l’urlo dei piedi dello spaventato. non esiste relatività, per un punto di vista che riesco ad immaginare, ma che, certamente, non so immaginare a parole. abbiamo reciprocamente abbattuto il finto limite di quello che ci si dice, ma non abbiamo mai parlato di quanto io ci sia nel tuo respirare poco prima di addormentarti. certe cose le ho fortunatamente solo sognate, ma la tua pelle è sicuramente una dimensione su cui potrebbe germogliare il mio amare. il mio non è un tentativo, la mia è una domanda. non inciampare sui veli delle mie paranoie che trascino a spasmi di chiarezza. rimprovero la mia calma, e forse il non averti mai avvolta con le sole braccia. non è nel mio stile, mi rifaccio a un senso d’eleganza che non esiste, è il mio punto di vista che tenta di porsi come condivisibile, ne fuoriesce l’impaccio del timido. mentre cerco una degna conclusione mi permetto di sognare al nuovo inizio che vorrei scaturisse. siamo tutti soli quando raggiungiamo un luogo e non riusciamo a fare quello che ci eravamo prefissati. le distrazioni diventano più importanti.

confusione.

flusso negativo di distanze, percorrendo la mia impazienza. ribadisco al mio cervello quello che penso di meritare e quello che gli eventi sembrano sviluppare. fornisco al foglio macchie rare, corrompendo le mie mani, sempre maltrattate. mi siedo incapace di raggiungere la mia tranquillità ed ascolto il canto terapeutico di un disperato, disperato per spossamento. incornicio il disastro delle mie convinzioni vestendo di complicata banalità le mie già scarse capacità investigative. chiudo a più mandate la porta, con gesti nervosi, più per sentire il rumore secco della serratura che scatta che non per sentirmi più sicuro. il canto disperato prende forza e mi ricorda dove stavo dirottando la mia concentrazione. allargo lo specchio cercando di non deformare niente, cerco di capire come vivere quella dimensione. approfitto del mio sgarbo per personalizzare gli oggetti con minimi difetti estetici, che, mia fortuna, lavorano lievemente anche sull’anima della prestazione. tento di far combaciare le palpebre e provo a limitare la frenesia del respiro. mi asciugo la fronte e la schiena, sono distrutto. il monumento piccolo scorge la sua staticità dal mare calmo di alberi e nebbia che come acque pacifiche si confrontano, collaborano e dipingono. mastico cento volte il boccone ormai disgustoso. scopro che molte di quelle che considero visioni non sono altro che desideri di chi è abituato a stare da solo e cibarsi solo dei propri pensieri. se avessi considerato almeno la metà di tutte quelle immagini che mi vennero offerte quando il tempo si sprecava maggiormente ne avrei potuto trarre conclusioni più soddisfacenti. non mi posso limitare al lamento del vecchio uomo che abita il mio corpo. basterebbe una carezza al tuo viso a farmi capire che le mie mani non sono pulite. scelgo una geometria semplice, la giustifico nel mio umore, la uso come il chiunque è abituato a inghiottire medicinali; mi fido solo dell’acqua e della frutta che la contiene in abbondanza. nessun sole sulla mia ombra. a passi comodi mi dirigo verso la destrutturazione di quelle certezze che sento potrebbero non essere del tutto mie; mettendole alla prova realmente. tutti i libri di cui mi circondo non bastano, e non regalo loro il principio d’esistenza che conservano, allo stesso modo come ho descritto l’inutilizzo che feci in passato di molte immagini. mi piacerebbe essere completamente sicuro riguardo chi la tua timidezza stia proteggendo; perché ogni tanto anch’io vorrei essere fisicamente cercato, ma è una falsità, l’istinto ci comanda diversamente, è di fronte alla conoscenza ed alle parole che tutto quello che mi blocca subentra. è alla cultura che devo i miei difetti, e probabilmente alla cultura che devo il poter averlo capito. la bilancia sulla quale da anni accumulo giudizi sui diversi piatti inizia ad avere carichi ingestibili, e niente mi porta a mantenerla nei miei spazi. ossessivamente controllo la strada che ho appena percorso, per accertarmi centinaia di volte di non essermi perso niente, allo stesso modo come controllo l’orario tre o quattro volte al minuto. sono incapace di limitarmi e tendo alla stremare le mie forze, la soddisfazione che ne deriva è magica. forse ho bisogno di spossare il mio pensare, di renderlo silente e godere del sonno come non mi capita spesso ultimamente. anche oggi, ho capito tutto in ritardo ed era già troppo tardi quando provai a riparare. sono lento e sciocco amica, il tempo ne è testimone. ho tradito la tua cerimonia, ben organizzata e discretamente decorata. ma almeno questa volta sono piuttosto sicuro di quanto mi assicuro di aver capito. niente di nuovo sulle strade e la delusione riempe l’aria di silenzio di quelle voci che riparano i fastidi. forte l’istinto di giustificare se stesso al perché dei propri errori. non è la prima volta che la fretta pone sgambetti alla mia lucidità; non sono stato onesto oggi nei miei confronti, non sono stato clemente con i miei timori e non ho raccolto oggi un sorriso nascosto in molti che volevano essere una minima esigenza di attenzioni a cui non ho regalato neanche uno sguardo. idiota, quando la mente vuole convincere troppo il corpo di avere bisogno di quel qual ché che non è. non sono stato onesto nei miei confronti, macchiando i tuoi. non me ne faccio una colpa, mi dispiace di aver dato poco. mi stendo su quel pezzo di casa che non sembra giudicarmi, fresco e lindo chiedo a occhi sbarrati al soffitto quale sia la migliore cosa da farsi. la analizzo e non mi convince completamente, ne scelgo un’altra e non mi soddisferà interamente. mi tirò su e faccio qualche passo casuale, senza alludere a mete o senza interpretare la definizione della superficie che calpesto. in preda agli svarioni realizzo che niente di quanto avrei fatto mi sarebbe andato bene, mi convinco che quel che deve succedere, succede.

coesistere.

il ritardo è dovuto causa impiego dei tuoi sapori a chiedere a te stessa se questa volta ne valga la pena di spingersi oltre, di varcare quel limite che quella che si fa chiamare vita si vanta tanto di averci insegnato. afflitta dalla tua incapacità di mostrare agli altri quanto tu abbia ragione ti poni dei dubbi oltre un consueto limite d’indagine posto tra il tuo cervello ed il tuo cuore. provi a spiegarlo alla tua amica mentre ti rendi conto che non ti capisce. mentre passi a setaccio le tue conoscenze già sai bene a chi rivolgerti, è fin troppo scritto nel tuo guardarti attorno mentre questa persona è vicina. il contrappunto riflessivo del tuo impeto vitale è l’arte canonica della tua bellezza, cornice magnifica del tuo esistere. tetra ed invisibile costante pervade la percezione intuitiva sui tuoi movimenti e ci alziamo insieme a ritmo telepatico a causa di quanto volentieri sappiamo raccontarci pensieri. descrivi quello che bene hai pensato inciampando con le parole ad inseguire la purezza di un flusso capace di stupire la razionale operatività del tuo già naturale analizzare; sarebbe stato bello pensi averlo realizzato quando ti fui di fronte. forse inizi già ad assaporare che quell’insieme di sguardi che sentivi ben presente su di te sembra non esistere o, forse ma non troppo più probabilmente, non creare più una quantità di pressione tale da ostacolare l’espressione motoria dei tuoi prodotti mentali. dimentichi qualcosa maledicendo il fallimento di un impegno tenuto sempre sotto ampio sforzo corroborato dalla crescita della tua evoluzione, o meglio, del tuo saperti evolvere. l’impaccio e la risata ridanno sollievo prendendo forma in quella passeggiata che magari avresti comunque fatto nonostante il necessario sapore diverso che necessariamente avrebbe acquisito esso stesso dalla forza del mio essermi convinto nel tempo. ritraggo i tratti che ti rendono unica ricordandoti come motivazione del mio agire qualunque di questo oggi soleggiato a cui non avrei assolutamente mai saputo dare un significato così costruttivo che non fosse il parlare con te; è rara la fortuna di avere così tanto di cui parlare, e forse ti ricordi che sempre così fu. la mia chiarezza pallida sa dare colore alle tue certezze orfane di una sicurezza che hai scoperto ma, prima che sia tu totalmente padrona dei suoi perché, utilizzi moderatamente. la concezione moderna di silenzio che mi balza alla mente potrebbe essere per noi forte stimolo comunicativo nei confronti di noi stessi. e abbraccio l’istante in cui ci stiamo amando in segreto perché sotto gli occhi di tutti e ancora timidi di accarezzarci.