linea.

patetico mi affaccio sul mio giardino giudicando quanto nel tempo mi è capitato di collezionare. mi rendo conto in questo momento di non sapere come interpretare le nuvole; non che sia mai stato impeccabile nel farlo, ma ora, sicuramente, non saprei proprio da dove iniziare. misuro i miei movimenti e mi immagino fuori dal teatro dove solitamente opero e mi vedo perso, incapace di reggere il peso di una situazione pregna di se stessa. forse ho solo sognato cose che continuano a illudermi riguardo alcune intuizioni, forse ho semplicemente molto più bisogno di quanto sono convinto di avere bisogno. allegro, rido con le persone con cui ci accompagniamo a vicenda nelle giornate. non avremmo assolutamente paura a raccontarci la verità, quello di cui abbiamo bisogno sono solo gli elementi a conferma degli sforzi della nostra razionalità. imbocchiamo il vialetto di ghiaia, cerchiamo l’ombra isolata che sappia ristorarci; ci affidiamo alla freschezza del nostro sentire per esorcizzare la presenza dell’umidità sulle nostre ossa affaticate. l’attenzione viene costantemente richiamata all’ordine di cose lontane dai nostri desideri, facili distrazioni per la nostra esigenza di ricevere; stiamo bene insieme ma nessuno dei due ha da dare all’altro quello che cerchiamo, un po’ perché cerchiamo quasi le stesse cose, un po’ perché entrambi ci innamoriamo spesso, sbagliando, di ideali. ci stendiamo e riposare darà sicuramente pace ai nostri desideri, anch’essi dovrebbe talvolta dormire. irrimediabilmente quando ci addormentiamo la temperatura si abbassa, i vortici allo stomaco aumentano, e la brezza fresca disturba il nostro riposo. eravamo assolutamente convinti che risposare ci avrebbe giovato ma, ultimamente, il risveglio è angusto e poco rincuorante. lascio che il panico mi avvolga, non ci trovo niente di nuovo.

immobile, il mio silenzio percuote solo chi si è imposto di essere felice. non pensavo che fosse così facile prendersi in giro. quanti errori ho commesso mentre cercavo ossessivamente qualche segno per strada? non possiamo pretendere di trovare qualcosa di nuovo in giro se facciamo lo stesso percorso, mio caro. il collasso delle mie capacità mi si presenta sempre un po’ di soppiatto mentre credo di poter avere in pugno la situazione. so benissimo a cosa pensare, oggi, quando per l’ennesima volta mi ritrovo ad osservare il panorama da solo, so benissimo che si presenta come l’unico vero inizio di finale di ogni trama che mi impegno a vivere ed intaccare. collaboro con il mio istinto e non mi stendo al sole a cuocere la mia bruttezza, non ne trovai mai piacere al farlo. insegno al mio corpo i suoi limiti e lui mi suggerisce i suoi desideri. la morsa allo stomaco stringe sempre più forte, non credo di sbagliarmi. sto mischiando pezzi di puzzle diversi e pretendo di convincermi che ne potrò cavare qualcosa. indago il concetto di verità e spero fortemente di sbagliarmi, non può essere così anche questa volta. mi ricordo velocemente che se volessi vedere il quadro completo dovrei scorporare i pezzi che ho accumulato gli uni sugli altri, è l’unico modo che mi rimane per evitare di impazzire, come ben ricordo già successe. non mi do pena e capisco il mio tentativo di depistare ed annoiare, conosco i miei perché, so quali errori fare e quando farli.

appoggio il coltello al muro con fare poco amichevole, descrivo un solco lungo più del mio braccio, verso il basso. senza voltarmi vedo il tuo sguardo opaco. sorrido; sto solo cercando di confonderti.

non sopporto il tentativo di perfezione di alcune cose, come del muro bianco che ho appena scalfito, l’ho sentito mentire e le urla nella mia testa mi hanno obbligato di metterle a tacere presto, poi mi sono inventato delle motivazioni creative al gesto, è la verità che conservo rimarrà mia. mi concentro su quanto mi da materialmente fastidio e vedo lontano il giorno in cui potrò possedere uno spazio vuoto da arredare e gestire secondo i miei voleri. mi accomodo all’angolo della stanza e abbraccio le mie ginocchia, come ogni alienato che si rispetti. alzo il volume della musica. abbandono il mio corpo rannicchiato e mi affaccio di nuovo a quel panorama che con tanto zelo avevo raggiunto. riascolto le cose che ho detto, divento giudice ed avvocato, mi accuso e mi difendo, e prima o poi sentenzierò freddo. mi ricordo che i pugni al muro non servono a niente e trovo la stessa soddisfazione nel mordicchiare pezzi di plastica puzzolenti. sento vibrare le giunture delle ossa, devo osservare qualcuno negli occhi o sono certo che sbotterò violento in qualche modo. cerco di rievocare i colori che mi affascinavano da bambino e mi prometto nuovamente che non mi racconterò più bugie. devo giustificare i miei umori, devo essere sobrio nei confronti della mia sessualità a cui devo regalare meno attenzioni e più vittorie. punto la testa contro il sasso ardente, è l’unico tipo di calore che mi aspetta. vedo molte persone sorridere per tutta la spiaggia, hanno tutti più di una motivazione per essere dove sono. li osservo e mi convinco di dover liberare il mio spirito dalle impalcature che lo limitano. non capisco e non mi piace il silenzio che mi circonda; è l’espressione di una tacita verità che mi permetterebbe la tranquillità. ingoio a fatica sostanze maleodoranti per distrarre la mia percezione. mi affosso sulle solite convinzioni, finché non porterò ad evoluzione i miei pensieri forse non posso pretendere che tu possa raccontarmi qualcosa. cos’è successo? sarò sincero..non capisco. scelgo una branda e accomodo la mia stanchezza. non passa minuto che i miei dubbi non sedino la mia concentrazione. metto da parte quanto ci siamo detti, nonostante l’imprecisione del nostro comunicare. affloscio la tensione sulla mia pelle e cerco di rendermi gradevole nonostante l’astio spinto dai miei pensieri. mi sento smarrito ed abbandonato come ero sicuro che questa volta non sarebbe successo. me lo ripeto continuamente: spero fortemente di sbagliarmi. ho le mani macchiate di me stesso. faccio in modo di essere presto nauseato dalle mie paranoie. completamente nero di fuliggine in volto e sulle parti scoperte del corpo, cerco di domare il fuoco che sta bruciando la mia pazienza, presenza infestante in quello che solitamente mi distingue. sto distruggendo la mia integrità al solo scopo di poterla ricostruire senza le falle che l’hanno sempre abitata, cerco di rendere lineare il mio già strano comportarmi. i riferimenti geometrici non saziano la mia capacità espressiva, allora stendo strade in boschi fitti come il mio cuore. l’istinto è quello di perdermi nei suoi meandri, seminando quei fascini che mi fanno rallentare il cammino. ho saputo allenare il mio sguardo e i miei movimenti ne hanno tratto notevoli vantaggi. se non parlo di te oggi è perché ti sto pensando più del solito e, quindi, potrei facilmente sbagliarmi. il diluvio abita il mio umore, su cui piove ormai da troppo tempo, sarebbe tempo di siccità e di far germogliare quello che l’acqua è in grado di cibare. accuso la logorrea delle mie ansie, e quante cose io mi stia ripetendo che già conosco e che non vorrei sentirmi dire. è tempo di essere sicuri di quale sia il muro adatto su cui sbattere la testa e cerco di individuarlo. mi accomodo allora sulla barca che sono sicuro mi accompagnerà ad uno sgarbato naufragio. mi ci vorrà molto tempo ad analizzare quanto illusoriamente mi preoccupa, il boccone da digerire è infinito. la dimensione che raggiungerei in questo contesto al tuo fianco potrebbe essere la mia vera vocazione, il circuito ideale alla gestione della mia tensione interna. sarebbe lo scenario più costruttivo alla realizzazione della tua presenza nel mio io. ora sono tranquillo, mi sono sfogato e sono sicuro di aver sbrogliato un accumulo tale da aver risvegliato la grazie che naturalmente ho scoperto di conservare. rimetto in moto la macchina dei ricordi. rimando al vissuto che ha formato la stabilità del mio sguardo. provo a rammentare dove nascondevo i miei tesori; che fossero questi un disegno o la carezza di un’amica più grande mentre mi faceva dei complimenti. si dice che ognuno raccolga quel che semina, e non sono sicuro di aver mai seminato nulla o magari, mia fortuna, sarebbe bello scoprire d’aver inconsciamente scelto i semi che richiedessero più tempo di tutti e allora non starò certo ad aspettare e mantengo quello che sarà lo stupore del giorno di raccolta. il problema è che non riesco a essere tranquillo, non ho la capacità di non essere completamente sedotto dal tuo odore. la tua percezione non ha magari molto di distante da quella altrui, ma lo sviluppo che le hai regalato saprà darti un buon ritorno a fatica debita. nella confusione di tutte le cose che mi hanno preso a spintoni non vorrò mai fare conto, mi siedo al tavolo con la mia pazienza a tirare le somme. l’allenamento che ho regalato alla mia fretta saprà tornarmi utile presto, così mi sembra di intuire. a cavallo dei ricordi, ancora una volta, mentre continuamente ripeto continuamente ripeto continuamente. all’interno del recinto della mia psiche permetto solo a mantra esausti di tenere la compagnia di quanto poi mangerò. aspetto la fine della pioggia per poter respirare fresco. il salotto è pronto, le tende rosse porpora sono al loro posto. è tempo di alzare il culo mauro, non mi sembra tempo di capire, i sogni ti stanno confondendo sempre di più, mi sembra razionale sia arrivato il tempo di dormire di meno. accarezzo le tende rosse e mi armo di respiri e pedalare sarà il mio regalo per stasera, la sveglia suona presto ma non si può sprecare una serata così e le strade la notte sempre deserte. c’è aria di un cambiamento che non riesce a scavalcare l’uscio e rimane vittima di se stesso. non aver paura di capirti mio caro. sorrido alla cenere, è simbolo reale di quanto vorrei essere oggi, fertile e sterile, innocuo, che porta con sé il ricordo del disastro e la pace dell’arso. ho creato in me stesso un portale di desideri che ti ha scelto come sua regina, sarebbe bello lo capissi da sola, perché purtroppo non sono bravo negli inviti. telepaticamente continuo a lanciarti quello di cui so tu hai bisogno. è tempo di chiudere gli occhi e di alzarsi dall’agio, è tempo di continuare a ripeterselo. accarezzerei la tua pelle come i petali soffici di un fiore senza colore, per me simbolo della ricostruzione di qualcosa lontano dall’armeggiare del mio istinto sul tuo candore se solo fosse autunno ci piangeremmo addosso come fuochi che hanno deciso di ingrandire l’un l’altro il vigore che si portano dietro ad ogni stallo temporale che definisce la crudezze delle proprietà di un domani edificabile sulle frequenze di assoluto ricordo degli errori che ci hanno portato ad incontrarci prima che fosse troppo tardi e aver perso il tempo che con foga abbiamo cercato di non sprecare ripetendoci quotidianamente che non ne valse la pena quella sera di trastullare la propria noia sarebbe sì opportuno indagare con le mani la nostra sessualità e porre atto alla crescita di quello che ci permette di non invecchiare di quanto sa mantenerci coerenti con il buon gusto che abbiamo imparato osservando gli errori degli altri sempre intimoriti dalle ombre che si sono costruiti imponendosi lo stare fermi sprecando la possibilità di migliaia di passeggiate che ci rendessero grazie e quel sole che non ci vorrebbe mai a letto che non fosse che per amarci e il delirio dei nostri ma non è che ti sei innamorato amico?

mi sa di si mio caro.

prvdentia carnis mors est.

l’accademia angoscia il nostro senso indipendente di concentrazione su quanto agisce nei nostri umori. non diamo ascolto alle fanfare di persone che non hanno mai camminato nude sotto la pioggia. si ribella il colore dei miei occhi, scuote la sua posizione e cerca di distrarmi e dare possibilità alla mia noia di portarsi altrove, mentre i miei pensieri vengono interrotti dai vagabondi girovaghi ed il loro bagaglio di concetti da asceti da marciapiede che mi fa sorridere, ingannando le idee di questi iper illusi. siedo sulla pietra piana e irregolare, ascolto il canto di una pioggia che mi fa invidiare le creature selvagge. ora preferisco questo mantra al silenzio che abitualmente lodo. le particelle umide che si appoggiano sulla mia pelle, e mi rendono tutto più semplice, godibile. scopro l’abisso che si crea tra il mio stomaco e il mio cervello, e non riesco a convincermi di tutte le strade che non mi porterebbero alla paranoia. cammino lento a passi regolari, cerco di capire cosa abita veramente quei spazi tra i miei organi. sento che vorrei stringerti la mano e guardare i tuoi occhi parlarmi ed esaudire le mie note e non rivelate volontà. scopro che la mia pelle funge da contenitore di un fuoco perpetuo alla presenza della tua totalità nei miei pensieri, e cerco di non bruciarti quando ti accarezzo. non posso privarti della presenza di questo ardore che invade la mia personalità. vedo che i tuoi occhi provano a nascondere una sofferenza radicata nel più vicino punto all’anima. non trovo pace per non riuscire a capire cosa questo malessere comporti. vorrei aiutare il tuo sguardo a tirarsi su dal letto, a vedere quanto potenzialmente ti circonda, vorrei capire, nel profondo, quanto questo male sia spirito o corpo che intacca la tua elegante bellezza. non passa giorno che ancor prima di svegliarmi non ti stia pensando, e considerando i pensieri che mi permettono di riposare disposto al sogno, non c’è momento che io non ti pensi nei momenti in cui posso essere sicuro di essere da solo, dialogante con la totalità del mio io, in quella dimensione dove non mi trovo perfettamente a mio agio, ma dove so camminare tranquillo e dove non hai timore di prendermi la mano. vorrei ripagare le sensazioni che il tuo esistere mi offre, vorrei lacrimare alla gioia del partecipare all’evoluzione di un’esistenza che non sia la mia sola, a cui, da sempre, mi sono occupato con fervore. non ho niente di materiale da offrire, me ne rendo conto che all’apparenza possa sembrare riduttivo il mio incontro, ma se è a te che sto parlando siamo entrambi consci di quanto questi elementi siano cestinabili laddove i pensieri collettivi rubano spazio all’altrui interiorità. raccontami i tuoi pensieri, niente oggi mi interessa più di essi. questi, così vivi, sanno consolare quella mancanza corrosa dall’insoddisfazione dei rapporti che siamo sfortunati ad instaurare, nella complessità del caso, a ridosso di un emisfero locale fatto di equilibri che nostra fortuna, ma non così sicuramente, forse nessuno è in grado di gestire. appartenere alle quantità di queste energie ci renderebbe alieni, io cerco di camminare sulla soglia come quando bambino cercavo l’equilibrio sui margini dei marciapiedi, e, talvolta, per forza di cose, mia fortuna, cade dal lato opposto al quale si abita, tendo a mantenermi coscienza unica e non sporcare la mia psiche con la fatica del sostenimento di due realtà così differenti, così pesanti l’una sull’altra. sento un’enorme caldo e tutti si coprono. non è così lontano da quanto stavo raccontando. allo stesso modo come la maggior parte delle droghe comunemente utilizzate, non trova alloggio nel mio corpo nervoso.

a cavallo dei miei ricordi cerco di confermare le mie tesi. faccio un fascio enorme di intuizioni, sguardi, frammenti, incontri, discorsi, idee e ne mastico a stomaco vuoto scuotendo le proprietà delle mie papille gustative, sollecitando il mio cervello a sviluppare quello che sappiamo è nel suo potenziale. sono reduce di un disastro a cui io stesso ho partecipato, in punta di piedi, mantenendomi sempre a tiro della via d’uscita, per potermi rendere conto a quanto veramente appartengo. allungo la gamba per permettere all’alluce di toccare l’acqua fredda, ne accarezzo poi la superficie godendomi il silenzio del caldo. compiango la mancata tua presenza nel mio accanto. nascondo ai miei occhi la luce artificiale di certe fronti pronte a lanciarti addosso idee confezionate da una fine plastica rumorosa tale da disturbare ferocemente la mia concentrazione. abbandoniamo temporaneamente la strada che m’ha cresciuto e troviamo un posto dove non ci sia qualcuno che non sappia bene cosa guardare. non ho fretta, aspetto quanto necessiti e qualunque sia il tuo futuro volere, non sono solito a obbligare i miei desideri. mi strofino gli occhi, esco alla luce; penso che sia inutile ricordarmi che sono affacciato ad un ideale, me lo ricordo e reagisco con quel classico “lo so” che comunque rimette la sguardo per terra. osservo i granelli di sabbia e mi chiedo in che modo un giorno potrò venirne a capo. lascio che la brezza accarezzi il mio viso come, appunto, nessun altro che non fosse mia madre ha mai fatto. chiedo al mio intuito quant’è che dovrei aspettare; sono sicuro di aver fatto tutto bene e mi convinco che un giorno si renderà conto da sola di tutto e capirà quanto ho solo voluto metaforizzare e solo quel giorno inizierà a farmi vedere che lei è veramente vicina al mio ideale, e questo lo so per certo. do cibo alle mie speranze, avvicino il mio olfatto alla durezza dell’aria. oppongo ad alcuni sorrisi obbligati, mi rendo conto di non essere assolutamente solo e riconfermo che quanto di più soddisfacentemente ho ottenuto è stato ottenuto con il tempo, con la pazienza e con l’aver dimostrato che quando parlo non mento. sono sicuro di potermi dire contento e aspetto che la tua gabbia sia finalmente aperta. critico anche dove sia posizionata questa, mi deprime chi si ritrova spettatore della tua umanità, ahinoi, sia incapace di riconoscere quanto offri. amici da lontano mi gridano che dovrei smetterla di dare acqua alle solite ossessioni, urlano che non parlo d’altro e si preoccupano per la tortuosità che ho inflitto al mio percorso. le tematiche chi mi appartengono sono le uniche che mi sento di affrontare, ricordandoselo annuiscono zitti e a testa bassa. allontano la lingua dalla mia bocca per permettere al sale di appoggiarcisi. il vociare delle nuvole si infittisce e il sole ne scopre gli spazi, esprimendo la sua potente grazia. il limite dei forti grigi diventa incandescente, mi ricorda che ogni tanto dovrei anche disegnare. approfitto della sabbia bagnata che non potrò portare con me, che non potrò rivalutare. sentieri selvaggi che affascinano la mia esigenza di esplorare. il deserto di intelligenze addormentante e costantemente sotto sedativo. provo e do forma alle complicazioni delle mie convinzioni, regalo gaudio a degli spazi bianchi che esigevano dello sporco nero prendere forme che testimoniassero vita. so quanto mi serve e mantraticamente mi ripeto che devo pazientare, e minimizzare la concreta sicurezza dello spreco che faccio del tempo, e le giornate passano, e le possibilità diminuiscono. sbagliato. quello che ci hanno sempre fatto credere è lontano da ogni realtà, come quanto è vero che l’unica lingua che so parlare oltre alla mia non l’ho imparata a scuola. quel che deve succedere succederà, non ci possiamo sottrarre né possiamo, né dovremmo, modificare le vere intenzioni dell’altro, che, comunque, nel tempo, si ripresenterebbero o represse o distrutte con le dovute macerie al suo intorno. penso che comunque continuerò sempre a dare legna alla locomotiva che spinge la tua evoluzione; è, adesso, l’unico modo che ho di amarti.

aculei.

mi guardo attorno e sempre non posso riporre quel che vorrei accadesse alle abitudini altrui a cui poco riesco ad appartenere. non si venga a pensare che sia nei miei intenti intaccare volutamente tali ritmi, mi rifaccio all’eventuale germoglio spuntato naturalmente negli animi amici, vicini. i tentativi d’illudermi sono via via più sterili, dovutamente alla mia sviluppata intolleranza per le delusioni sviluppate sul nulla, per l’impossibile realizzazione di fantasie basate su visioni evocate dagli istinti frustrati e stipati dalla nostra cultura. è faticoso dover fare i conti con la propria interiorità così spesso. provo stanchezza a non poter soffocare quel continuo istinto ad entrare nell’altrui psicologia ed intuirne i pensieri; irrimediabilmente, in quelle a cui particolarmente tengo ne vado leggermente fuoristrada, smarrendo il vero motivo della mia presenza quando pensoso mi aggiro nelle possibilità d’incontro. siamo sicuri di aver ormai tratto già molto spesso di queste conclusioni, sarebbe opportuno dare una significativa svolta alle proprie noie. non presterò giudizi al possibile evolversi delle mie paranoie, mi limiterò ad osservare dove appoggia la coda del tuo sguardo quando possibile, quando entrambi ci siamo resi conto di essere vicini. è intenzione concreta quello di lasciarti un segno indelebile nelle profondità dei tuoi pensieri. non vorrò mai abbandonare la possibilità che un giorno evolveremmo abbracci stretti e lunghi. non so contare quante sono le volte in cui mi sono sbagliato, negli anni. ma credo di poter riconoscere quella luce nei tuoi occhi quando mi sorridi dove non l’ho mai incontrata. accarezzo le mie ali e mi muovo nella bufera, cerco di contrastare l’impossibile forza del vento e rimango in equilibrio a stenti. posso solo permettermi di non concentrarmi concretamente sulle direzioni che prenderei; allungo un braccio e cerco un appiglio, e trovare un appiglio mi rendo conto sia l’unico obbiettivo del mio agire. non alcun interesse a quello che sia il problema che potevo evitare in cui mi sono tuffato, e neanche la sua soluzione, quello che mi interessa oggi è quanto mi possa permettere di sostenere lo stress della ricerca di una precisa soluzione a quel ingombrante problema che intacca i capillari dei polmoni. trovo uno specchio e non mi sorprendo a vedermi confuso. scendo dalla scala delle mie fantasie e mi siedo per terra; la testa pulsa forte e la mia pazienza, come poche volte, mi regala segni di cedimento. “non hai ancora smesso di sognare” mi dice la rappresentazione della mia razionalità. vedo e sento sorridere le mie motivazioni accerchiate da un’esibizione di gutturale stupidità e richiamo all’insensatezza di essere un umano. le intercapedini si allagano, nulla di preoccupante. sento vibrare sotto i piedi, oggi non capisco perché il mio sguardo sia congelatamente preoccupato. non mi sento in forma, e questo sembra voglia dire che non è ancora il momento adatto ad alzarsi. il letto respinge le mie ossa bloccate. il cervello non capisce, la sensazione è quella di ingranaggi inceppati. i rumori erano secchi e chiarissimi, più di sempre, percepiti a mille. mi sono svegliato stanco, non sarò certo capace di essere carino. tutto indolenzito mi aggiro insicuro e la gola rimugina l’opacità sviluppata in una notte aspra. certe giornate iniziano strane. mi accorgo che non sono solo quindi avanzo qualche pensiero ad alta voce, ringhio giudizi. ogni sorso d’acqua che faccio non basta. fuori l’aria è tersa e densa. sta per posarsi la base di qualcosa che presto succederà. il mio sguardo a testa bassa non sembra infondere sicurezza a chi potrebbe fidarsi di me; si vede che qualcosa mi sta turbando in modo insolito. i muscoli sono indolenziti e non sembra che abbiano riposato le ore che è supposto che io sia stato nel letto, non posso certo esserne sicuro. la mia percezione non è certo in grado di dare forma vera al procedere delle cose. mi limito a fissare il vuoto convinto di aver vissuto qualcosa che non ho capito, che forse ho solo distrattamente percepito. sarà il vento della finta primavera.

metto l’ultimo brano. striscio la faccia sulla ghiaia e comprendo che quanto sento oggi non è correlabile al mio intero vissuto. non che questo suoni tragico ma sento delle forti stranezze nel mio cercarmi oggi. ho messo qualcosa che conosco bene, per ritornare a capirmi. le strade la scorsa notte erano quasi completamente vuote, chissà dove sono realmente. nuoto con fatica nell’acqua caldissima e poco invitante. conosco le ragioni che mi hanno portato ad aspettare qualche secondo in più; conosco la fiducia che ho nel mio intuito. ho ben atteso il momento di dare manforte alle mie presunte qualità. con il martello percuoto le impalcature che mi reggeranno nelle prossime ore mentre le lacrime scendendo mi ricordano le attese che mi sta riservando il presente su l’impossibilità di predire minimamente il futuro. vedo poche cose evolversi, vedo poco muoversi. oggi è tristezza quella che muove le cose, gli alberi e i miei capelli. diamo spazio alle incomprensioni senza avere coscienza di quanto veramente ci spaventa. non abbiamo ancora provato niente e ne abbiamo timore. stiamo proteggendo noi stessi nascondendo un sacco dei nostri desideri. sembra sia opportuno aspettare che il mare si plachi per poter remare tranquilli. l’unica certezza la ritrovo nella mia pazienza nei confronti delle tue parole. io non dico mai tutto, ma, regista dei miei sbagli, do allo spettatore la possibilità di intuire l’evoluzioni di una trama a cui ti viene chiesta compartecipazione. è buio e non è sera, questa luce, in una giornata di plastica, sembra non bastare.

silenzio.

forma organica nel contenitore alla base dei miei piedi. ogni giorno vengo disturbato da chi mi osserva con la coda dell’occhio e mai, grazie a questa consapevolezza, riesco veramente a trovare una discreta intimità quando voglio isolarmi in altrui presenza. come posso trasmettere silentemente che i tuoi commenti sottovoce fatti apparentemente all’attenzione esclusiva di te stesso non mi interessano? dove ha sede la mia soddisfazione negli altrui confronti? meticolosamente focalizzo quasi tutte le mie disponibilità energetiche a richiamo dell’attenzione di una sola persona. mantengo il mio sguardo sontuoso, dipingo la mia maschera di un nero opaco impenetrabile e molto elegante. tutta la mia concentrazione viene scagliata sull’uccidere gli altrui pregiudizi. cerco di trasformarmi nel fantasma di me stesso e camminarmi davanti. portare la mia immaginazione ad essere il mio abbigliamento e avere tutte le idee che mi appartengono tessute aderenti alle mie imperfezioni. nessuno potrà credere quello che i superficiali pregiudizi sono soliti a creare. sarò l’unico ambasciatore di me stesso e tre lunghi cavi appesi alla mia cintura mi seguiranno, sui quali saranno prontamente esposte tutte le maschere di cui mi sono servito, e queste vibreranno senza emettere suono. saranno lo specchio perfetto del mio sguardo espressivamente muto. lascio che si scriva da sé il resto della storia, così aspetto l’unico sguardo che mi interessa. sento il peso dei miei pensieri. è arrivato il momento di fare i conti con le mie fantasie, e capire se i miei sogni sono tali solo in quanto desideri o riguardo alla fattibilità della realizzazione di un futuro che mi farebbe sentire meglio. indago il lato conscio e i numeri ci sono tutti. la mia immaginazione, più di tutti, sa darmi gli elementi che mi renderebbero sorridente davvero. ascolto in silenzio i perché del mio corpo, metto a tacere quelle voci che mi fanno odiare la mia esigenza di esplorare l’intorno. c’è voglia di silenzio nei miei occhi; silenzio che sono obbligato a costruirmi quasi ovunque vada. solo la tecnologia e l’acqua mi danno risorsa per farlo. e solo ora ricordo perché da bambino ripetutamente andavo sott’acqua a fare finta di volare. avevo già cercato l’espediente adatto all’isolamento dalla forzatura di vivere in un ambiente reso sociale da alcuni accorgimenti antievoluzionistici. esistono frammenti nella mia memoria che mi rimandano agli altrui sguardi di quel periodo nei miei confronti. solo ora riesco a spiegarmi alcuni dettagli. chissà di cosa si innamorò quella ragazza che mi corse dietro per molto tempo. il tutto, automaticamente, si aggiunge agli elementi stipati nel mio archivio, per analizzare quelle cose che un giorno capirò, proprio come oggi ho realizzato il perché di alcuni sguardi, di alcuni sorrisi e parte di quei comportamenti che facevano di me un bambino diverso da quelli con cui passavo interi pomeriggi. la mole di lavoro aumenta e devo stare concentrato anche a proteggermi dai vampiri che cercano di succhiare le mie attenzioni mitizzate per il miglioramento di quella loro interiorità che ora si ribella per essere stata così a lungo presa in gira o ignorata. sono convinto che molte di queste persone si dimenticheranno di me prima della mia morte. forse sto esagerando, forse sono solo un pò stanco.

ventiquattrore.

pongo seduta stante le basi della consolazione che nel giorno detto unico io conosco. i piani perfetti non sono mai esistiti, a dimostrazione di questo l’organizzazione cospirativa degli ostacoli prende forma. mi hanno educato a pensare che il giorno unico fosse fonte necessaria di qualcosa che non mi è mai appartenuto, ma che ho sempre tentato di evocare stando alla ricerca di quella semplicità che fosse in grado di regalarmi un sorriso da rivolgere al mio interno, alla mia schiaffeggiata intimità. è a quel lato di me a cui avrei felicemente regalato respiro, uno di quei pochi giorni in cui organizzo una pausa che possa permettere al mio sguardo di non notare tutto e ridurre la porzione di una messa a fuoco già faticosa. cerco di sbrogliare interi gomitoli che ogni giorno si scontrano e riempiono il mio vivibile, il volume della mia pazienza. esercito lo sfregamento del collare ai punti più sensibili e definisco le misure dei miei limiti. mi concentro a tal punto da non essere in grado di dare posizione alle tue vicende nonostante queste disegnino il principale mutamento di tutto nel mio progetto. mi invento una puzza di bruciato a cui io stesso stento a credere; non mi sembra ci sia niente di sbagliato nel procedere delle vicende, i fatti dimostrano alla mia puntualità la concretezza del loro essere, finalmente sono sicuro della vertigine che percepisco solo quando disteso appoggiando non completamente la schiena sulla superficie che mi ospita.

fortuna la struttura che permette di reggermi in piedi ultimamente si ripresenta stabile e al mio servizio; l’esistenza di tanta gioia prima d’ora solo nella memoria infantile aveva lasciato qualche traccia. sapevo di non potermi sbagliare. taglio netto ai timori, vaporazione di quelle energie nere che mi hanno guidato attraverso strade deserte nella notte. sei custode di una delicatezza di estrema rarità. riesco a sorridere al solo pensarti, beato. spengo la luce. metto comodo il mio senso d’appagamento, gli massaggio la testa e gli ricordo di non adagiarsi troppo. non mi priverò di nessuna soddisfazione e manterrò paziente il mio impegno. sento la tua presenza. mi stendo e raccolgo i miei difetti ad assumere minor spazio possibile; sei sdraiata accanto a me e ci teniamo la mano. il silenzio attorno fa si che la percezione possa aumentare il volume delle vibrazioni d’aria autonomamente. sto offrendo all’organismo un’esperienza unica. si creano sensazioni che hanno le stesse proprietà del cibo, e solo una volta sazio potrò addormentarmi.

sento la necessità di abitare uno spazio ampio. mi raccolgo in uno dei limiti architettonici che mi vengono imposti, applico al mio sguardo l’acquisizione delle proprietà delle simmetrie e trovo fascino in angoli dimenticati e sottovalutati. catalogo i difetti del tempo espressi a causa della loro unicità nell’ambiente dove sono nati. induco umori all’utilizzo che viene fatto di certi oggetti. non posso più sopportare tale forzatura al silenzio, così innaturale e ingiustificata in questo luogo. sbadiglio nei confronti del crescere della mia impazienza in un luogo che non sa più ospitarmi; è violenta anche la reazione del mio stomaco. deduco il mio sguardo dal movimento spontaneo dei nervi facciali. capisco che non è più il luogo dove mi trovo ad essere il mio problema. ho inconsciamente avviato quel processo a disturbo di equilibri che razionalmente ritenevo solidi. insaporisco il mio palato, cerco di drogarmi. non è possibile fermare un tale divampamento, qualsiasi tentativo rimbalza o trova potente ostacolo al suo operare. mi concentro alla comprensione del mio battito cardiaco. forse oggi sono più vicino di quanto pensi al riconoscimento delle mie preoccupazioni. d’istinto osservo cosa succede fuori dalla finestre e fortunatamente scopro di essermi allontanato a sufficienza da chiunque, non potendo più scappare da quei pensieri. non sono più in grado di trovare rifugi, né tanto meno di rifugiarmi. abbandono le certezze di alcuni studi obbligati e mi concentro sulla mia percezione, ancora una volta. il coro alza la voce e mi ricorda del suo sguardo assente a quelle altre realtà che in quel momento vivono la stanza. non dovrò più intercedere all’errore di dimenticarmi della quantità di altre cose che in uno spazio delimitato con me esistono. mantengo il collo bloccato  e lo sguardo di ghiaccio. non posso permettere al cervello di giocarmi uno dei suoi espedienti per evitare l’istintiva e necessaria violenza che pongo a quelle conoscenze che mi hanno, per anni, fatto passare per vere. sempre più non posso che basare le mie verità sul mio vissuto sensoriale. le mie idee solo da poco possono prendere forma nei miei movimenti. capisco, a passi lenti, le distanze che mi concedo di affrontare. urlo contro quel mio lato così fragile e aggressivamente cerco di spronarlo al meglio. abbaglio il mio sguardo con luci fredde e obbligo il mio udito a non poter ascoltare nient’altro che quanto abita in mezzo al suo stesso apparato. mi aggrappo a quanto si dimostra più grosso di me e cerco di trascinarlo anche solo di un millimetro testando le possibilità e la matrice delle mie ansie. mi spargo di colori che possano distrarre lo spettatore e rendermi sicuro delle insicurezze da indagare in un momento di spensieratezza tale da condurmi all’indagabile. affronto il mio respiro. aggrotto le sopracciglia a tal punto da non riconoscermi. sputo sullo specchio con la violenza di chi sta crescendo. non mi sembra un buon momento per disturbarmi. indirizzo ad un punto preciso il fulmine della mia tensione. le mie dita feriscono le mie mani. calmandomi capisco che oltre non potrò spingermi, per ora. le nuvole si avvicinano. buon compleanno mauro.

il cielo è azzurro e limpido, un continuo vento fresco lo mantiene pulito; gli uccelli, in ritardo o meno, sembra inizino a sfruttare le correnti. io cerco di tenere pulite le mattonelle, per potermi stendere su quella loro proprietà di mantenersi fresche sempre. la combinazione di vento e sole oggi è ideale, non fosse che questo vento ancora trasporta fastidi. la pelle reagisce male e gli occhi cercano idratazione extralacrimale; infatti, è oggi che i saluti degli amici sono seriamente importanti, è adesso che l’abbraccio rende forma all’esigenza di uno sguardo consumato. dimentichiamo le proposte per stasera e godiamoci dei sorrisi che la vita non è solita regalarci. mi guardo attorno e mai come prima non capisco quale sia la via da prendere, continuo a girare la testa e il mio sorriso inebetito sa di aver iniziato il rinnovo dei propri riferimenti. divento ausiliare della conflagrazione del mio spirito che è stanco di aspettare che il cassetto dei sogni possa essere aperto. sorrido, perché riconosci cos’ho già capito. spargo i muri di fogli bianchi, per proteggere quel senso di decoro che spesso mi diede allo stomaco. cerco un operare stimolante e non troppo derivativo da quanto, assestantemente, annoia. provo a scrivere su quel qualcosa che non abbiamo ancora capito. chiedo a me stesso dove possa avere forma quel paradiso a cui tanti aspirano, ma non mi ritrovo nelle convenzioni degli altri. chiedo fascino ai miei lineamenti. scopro che quanto ho da regalare oggi è tuo. i bambini, intanto, corrono e strillano nel cortile. mentre proseguo il mio sguardo rimane fisso sul lato destro, osservo il procedere del mio percorso mettendo a fuoco solo quanto sto perdendo senza concentrarmi su quanto potrei raggiungere; fin da quando sono piccino che lo penso stando seduto. chiudo gli occhi e cerco di riconoscere dove sono dai suoni che sento. subito facile mi distraggo e ti immagino a pensarmi, mentre danzi sull’acqua. cerco di sentire il profumo che sa accendere quell’agire sui nervi che non avevo mai incontrato. continuerò a costruire le situazioni favorevoli ai miei istinti, comunque, perché non potrei ignorarmi così a lungo. mi immergo nei miei sogni come sono abituato a vivere il presente. mi assicuro di non essere sveglio e provo a staccare il mio sguardo dalla faccia per potermi finalmente osservare dalla distanza. non credo possa funzionare. succede che il mio punto di vista diventa nuovamente io e quanto osservo è qualcuno che non so più riconoscere. prendo atto della verità dell’assurdo e trovo così i limiti delle mie aspirazioni. sono ora sicuro di quanto dovrò realmente sudarmi, il che non mi spaventa ma mi rallenta ferocemente. non me ne dispiaccio, sarà stimolo per le future camminate al buio. mantengo coerente il mio sguardo senza l’adozione al caso di quell’impegno che renderebbe tutto costruito, cerco di evolverlo come automaticità, conservando la naturalezza con cui il gesto s’è presentato. ultimamente non ho sorriso molto, se non quando t’ho pensata. oggi le nuvole le ho viste portare via da una fisicità che da sempre ammiro. mi lascio accarezzare la testa e mi godo il respiro di un’aria rara e pulita. sostituisco la delicatezza del soffiare alle tue mani e non vedo altro che l’azzurro immenso. vorrei darti quanto non so ancora di avere, vorrei fossi tu a scoprirlo.

le nuvole imitano gli alberi. ancora una volta dieci è il numero perfetto. bastonate contro cespugli vuoti, un domani che sa di già visto. non ho riposto fiducia nell’illusione di un inverno già presupposto opaco. apprezzo lo sforzo dei tuoi occhi di non ferirmi, è il nostro modo di amarci che mi sta regalando il profumo di un vento nuovo. strade non troppo vicine e i necessari ostacoli che vi si pongono in quello spazio che determina parallelismo. non posso invitare i miei disturbi ad assisterci, ma quantificherò il dispiacere della mia pazienza regalandoti uno sguardo raro. prevengo l’operazione che mi renderebbe sordo a mantenere lo sguardo basso. è primavera per tutti del resto. si riempie il terreno di oggetti masticati. capisco i tuoi sviluppi, ne guardo amareggiato e contento. sorrido al calare del momento in cui ho desiderato sognante di accarezzare il tuo profumo, necessariamente al tramonto, trovo forma alla mia risata isterica mentre capisco che tutto il tracollo che palperò sarà capace di uccidere un sacco di motivazioni, e se ne creeranno molte altre. sono portato ad esagerare, ma non mento mai. considero l’incontro un privilegio, è questo diventa parte del vedere il bicchiere mezzo pieno. già mi immagino a scavare caverne nell’ovunque e prima o poi capirò che non ci si può nascondere da se stessi. qualcuno si intromette facile sul mio sguardo e disturba i miei pensieri, sbatto la porta silente e senza cambiare espressione. rimuovo i ricordi di quanto mi ero promesso di fare. guardo la valle dalla collina, capace di intendere che alle mie spalle c’è altro. troverò motivazione nell’ombra. c’è chi si illude che io li stia guardando, percepisco il sapore dei gas del mio stomaco. continuo ad accumulare oggetti in uno spazio che mi costringe ad un claustrofobico singhiozzo. faccio suonare le frequenze che sanno farmi allargare la percezione, e trasformare i centimetri in metri. innocuo, mi accarezzo l’addome immaginando quanto avrebbe potere di rilassarmi. non esiste genere di conforto per la sfiducia esistenziale nel futuro e nel futuribile. siedo garbato accanto al tuo sorriso, concentrando il campo visivo sui colori degli anni. sento di meritarmi di più. propongo al mio cervello una pausa vera, in un contesto di immagini familiare, inseguiremo le soddisfazioni domani. assecondo come un amico il tuo operare distratto e distante da lati del tuo sentire che mi hai mostrato; non mi offendo, è fuori dalle probabilità. ho perso le fasi della luna a te favorevoli, che per me furono impervie. mi affido alle certezze del tempo, che passando mette ordine al caos dei pensieri. so di non dover ascoltare continuamente i tumori del mio conoscere. farò silenzio, costringerò il mio fuoco a divampare verso quanto non può bruciare. urlare soddisfatto dopo l’avvenuta crisi della mia tranquillità, finalmente solo, come desiderai, come speravo non accadesse, come immaginavo non fosse. rompere i vetri a pugni chiusi. oscillo anch’io sulle certezze che sono sicuro di non avere. mi chiedo se ne valga la pena già conoscendo la risposta. sono curioso del futuro e non provo spaventi riguardo le delusioni che so mi colpirebbero di più. sornione mi guardo allo specchio, faccio la cernita dei punti deboli. metto pace a voci che esistono solo nella rielaborazione precoce e superficiale di altrettante voci, nate sterili, quantificanti la desolazione del nostro buon umore. vieni vicino e lasciati raccontare le tue bellezze, possano queste aggrottarti la fronte e farti mangiare le dita, durante la passeggiata del tuo io nel ricordo dei tuoi errori. non vorresti sbagliare di nuovo, non vorresti deluderti ancora. non facciamo dell’incontro delle nostre mani qualcosa di abituale, edifichiamo un immaginario che possa andare oltre i limiti culturali della definizione di amicizia. partecipiamo al collasso delle certezze che ci hanno raccontato, come sappiamo sicuramente ne gioveremmo. fingo di stare bene da sempre solo per non essere disturbato dal chiunque. richiamo la tua attenzione continuamente non sempre convinto e contento di farlo. ancora sorrido; capisco di aver raccolto in questo sfogo quell’insieme di pensieri che non volevo portarmi dietro oggi, sono contento di averlo capito. se oggi è stata una giornata poco interessante lo dobbiamo alle nostre distrazioni. prepariamoci a contenere le novità senza esaltare i veli che le coprono. le analizzeremo sereni quando sarà significativo vedersi.

fiero.

punto di raccordo, elemento fondamentale alla comprensione che permette la comunicazione tra due generazioni che si sbirciano da lontano. il mento appoggiato sul muretto ruvido, la pelle se ne lamenta. assopiti dalla consapevolezza che i sogni non esistono e le realtà ci consigliano di prenderci a schiaffi piuttosto che sorridere. mi rendo conto di inseguire quelle sensazioni che fanno vivere i miei organi, che risvegliano quell’eccezionale partecipazione del corpo alle cose. niente può rimandarmi a quando da piccolo fissavo l’acqua sicuro che un giorno quei colori li avrei potuti imitare. niente si accavalla alla mia psiche come le memorie del vissuto, niente è più importante della consapevolezza che oggi ho dello ieri. aumento il tono della voce con chi fa finta di non avermi sentito, la scorrettezza del gesto mi indispone fisicamente; cerco solo di trovare motivazioni per il mio percuotere le superfici con la mano chiusa. vulcano che talvolta accumula sulle spalle delle intere ere. sento di non avere molto in comune con le persone che decidono di rinchiudersi in grosse stanze e passare ore ad appoggiare i gomiti a dei tavoli, a quantificare l’immenso delle proprie illusioni, senza prendere l’atto dovuto di infondere nel sé quella tipica tempesta che tutto inonda, che ci porta con grazia al cinguettare postumo di esseri che hanno saputo trovare riparo. cerco, anch’io, di mentirmi per favorire la distrazione dal bisogno di scorgere la tua figura dall’angolo che osservo; quell’operare rimarcato della creazione di una dipendenza di un sentire che mai incontrammo, l’inseguimento di una reazione chimica sconvolgente. le onde della delusione sono belle ma non possono regalare la soddisfazione del forte infrangersi su quelle nozioni fatte passare per sicurezza, per mezzo evolutivo di idee morte. fissiamo la crepa sul muro, il fascino di una semplice rottura di un insieme sterile, piatto. ci ricordiamo presto che anche stasera vogliamo fare tardi. non v’è sole che possa illuminare quanto mi incupisce. incauto faccio finta di essere consenziente perché il dialogo non è sempre benvenuto, soprattutto quando non definibile come tale. partecipo al mondo delle idee come un arciere che tenta continuamente di colpire il centro perfetto, e non ci riesco mai. probabilmente finirò un giorno conscio che non fosse niente di così speciale. intanto, non mi ringraziare per due parole fugaci su una panchina; non commemorare che qualcuno finalmente ti abbia ascoltato. gioiscine come quando dimostri a te stesso di aver fatto la scelta giusta; il buio saprà consolare le tue visioni e la tua intimità. l’entusiasmo non può funzionare in chi non è entusiasta, banale non sembra.

attraverso una cascata trovo la dimensione ottica che in questo momento mi aggrada. altresì l’umidità mi impedisce la maggior parte dei movimenti e infastidisce nel mio percuotere continuamente le punte dei piedi contro le rocce, o qualsiasi altra superficie più dura delle mie ossa. assaggio per sbaglio le gocce del mio sudore che disgustano la mia ricerca d’equilibrio psicofisico. le vibrazioni del terreno spaventano i miei pensieri. appoggio la schiena su di una roccia alta e liscia, dove sia presupposto che niente possa sorprendermi al di fuori del mio campo visivo. in un treno di visioni si ripropongono i soliti fantasmi e la memoria dei sensi prende forma nei miei personali archetipi a riguardo. cerco di ricordarmi i visi a cui sono più affezionato, in senso visivo, nei materialistici desideri degli istinti. cerco di intuire un cooperare non dichiarato a mio favore, sono sicuro questo dipenda solo da quanto stia ascoltando ora. oggi ci facciamo passare per buono quanto un domani limiterebbe la nostra digestione di pasti fatti per convenienza ignorando i bisogni. mi guardo attorno continuamente e faccio finta di avere qualcosa a cui pensare; immagino di scivolare agitando la gamba nel vuoto, chiedendomi  fino a che punto possa spingersi l’illusione dettate dalla mia memoria percettiva. immagino di spostare una sfera inesistente con i piedi, danzo sull’erba bagnata che idrata la pelle delle mie gambe mentre il sole uccide le mie energie. continuamente mi assicuro che io sia solo, a favore della stabilità delle mie visioni. apro la mente per il tentativo di permettermi di memorizzare il colore delle foglie in un controluce opaco, che definisce la densità dell’aria, già notata dal mio respiro e dal lacrimare saltuario delle mie parti più sensibili. non ho niente da dire oggi a nessuno, cerco di trasmetterlo nella durata di pochi battiti di ciglia agl’occhi che incontrano i miei, perché oggi le mie parole sono pesanti ed il mio tono di voce non riesce a quietarsi. la culturalità dell’operare altrui mi collocherebbe definitivamente in una dimensione che non appartiene al mio carattere. i pruriti ovunque sulla schiena rallentano il mio procedere verso la non destinazione che mi sono prefissato, in quel percorso obbligato dalle cose, dove abbiamo notato che non esiste il caso se non dove lo assoggettiamo con la prepotenza di notare qualità teorizzate in qualcosa di estraneo alle regole della nostra cultura ma a cui, spesso questa, sorrido, si ispira. allora cos’è che raccontiamo quando intuiamo qualcosa nei movimenti della natura? quante bugie non ci siamo detti ancora? entrambi sappiamo comunque di quale bellezza è rivestito il percorso che stiamo attraversando. ed è nel percorrere che sappiamo riconoscere quell’esperienza che un giorno, probabilmente, racconteremo. se si fa tardi già conosciamo le nostre angosce del risveglio, e se appoggerai la testa sul mio petto sentirai quello che provo quando passo del tempo con te. proprio mentre cercavo il vuoto nella totalità del mio essere ti avvicini tu, ed il mio ritmo cardiocircolatorio cambia, il mio affanno aumenta, le mie gambe perdono stabilità e mi sento completamente assopito da un’esigenza chimica di stringerti la mano e accarezzare la tua pelle. la motivazione che nel mio nulla stavo cercando oggi l’ho trovata e, come ieri, e come domani, sei tu.

gelato.

per quale motivo mi fisso le mani mentre immagino le geometrie che vorrei disegnare? che rapporti ci sono tra quanto produco e quanto nelle profonde pulsioni io sono? quante persone mi pensano mentre mi sento solo? ce ne siamo appena andati e lasciamo soli i rumori che ci tenevano compagnia. di che passione stiamo parlando? non possiamo guardarci a lungo negli occhi se io non mi sono detto tutto quello che ho già capito della mia comunicabilità. cosa si aspettano le amiche che vengono a parlarmi? quanti dei miei interessi derivano dalla mia sessualità? psicopatico, cerco di abbattere la battaglia contro me stesso e quanto lascio indifeso colpisco. inizio solo adesso a capire alcuni commenti sulla mia distrazione di questi tempi; forse hanno ragione, o semplicemente non mi fa bene stare sveglio più del settantacinque percento della giornata. lascio parlare ancora una volta il mio silenzio, e spio come una iena affamata sui movimenti di chi mi attrae. ne parlo con un’amica incontrata non a caso e senza preavviso, dice sorridendo che le faccio paura. mi guardo le unghie e forse non mi riconosco, succede più di una volta al giorno. mi hanno obbligato per giorni interi a non poter stare in silenzio, mi hanno privato di energie che avrei ben sprecato; mi hanno detto un sacco di grazie e non a tutti ho saputo rispondere. continuamente e con la stessa cadenza, mi voltavo alle mie spalle verso l’entrata, controllando l’ora ogni venti secondi, potendomi assicurare che la mia percezione del tempo avesse riferimenti analoghi alla mia tachicardia. mi rendo conto che appoggiando il gomito sul tessuto a me vicino non cercavo nient’altro che la tua mano, e in quel momento mi facevo schifo e mi rendo conto non sarei capace di pormi come soluzione alle mie visioni, e mi zittisco subito e forse un giorno ne parleremo. a tutto si aggiunge la paura di compromettere il sorriso che fai quando mi vedi. piange il cielo lontano dai miei ricordi, ce ne facciamo ragione nel buio della sala che ospita il nostro stare in silenzio, e ci parliamo distanti a fasi alterne giorni dopo, lasciamo che tutto lieviti, dietro i nostri occhi. sono felicissimo per i tuoi progetti futuri; so che vorrei fortemente esserne parte. torno sui miei passi, controllo le orme: noto con amara soddisfazione di essere andato molto in là al resto del gruppo, mi siedo un attimo e capisco di non poter stare fermo. allora speriamo nella tua velocità, che, nonostante io risponda triste alla mia assenza nel tuo essere, continuo a sollecitarne la prestazione, a renderla parte integrante del tuo muoverti senza lederti. ritorno ad essere un bambino che sa che un giorno vicino non potrà più avere il suo ciuccio. rattristisco sempre di più alla vista delle maschere che l’ognuno si prende la briga di non dimenticarsi mai, dovrei allora smettere di credere di conoscere molte persone. conosciamoci meglio un giorno in cui abbiamo altro a cui pensare.