la sera si è isolata. è facile inventarsi ricordi, mirare a precisi rimpianti. ogni giorno il tempo piange se stesso. quanti momenti della mia infanzia mi sembrano lontani dalla persona che sono, che sia diventato o che non sono riuscito ad essere. forse era sempre sera, quando il mare vuoto sapeva essere territorio più fertile per i pensieri, sempre in quei colori stupidamente ricercati dai pittori e dai fotografi. non ero piccolo, ero solamente smarrito con il compagno tonto che era la mia testa, due disadattati individualisti, geniali nel dar impressione di essere normali e di capire le cose ma esserne lontani per scelta. e in questo sono sempre io, tutto tocco e nulla mi appartiene. me ne rendo conto quando gruppi di persone ridono insieme, in pubblico, immersi nel traffico di realtà sconosciute che cercano di mimetizzarsi in una parvenza di connotato comunicativo universale. non ci sono meriti ad aspettarti, non è colpa dell’inverno che non finisce mai. mi immagino facilmente steso lì, sulla sabbia, ad accarezzare la polvere dei cantieri di contenimento dell’acqua, ed immaginarmi tutto quello che sarei potuto diventare, il che, forse, è sempre stato il mio gioco preferito. pensavo che tutti i miei giocattoli fossero andati persi, come vero che solo mia madre avrebbe potuto riportarmeli a metà, ma in un numero sufficiente a ricordarmi la persona che sono. quante cose avrei comunque voluto diverse, quanto è facile dirlo. è un periodo difficile, un periodo che da settimane si è trasformato in mesi, e non cessa di progredire. sento sempre le scosse tra le ossa e le dita tra i raggi, quasi da far fatica a camminare. è strano, l’altra faccia della medaglia mi descrive come eri centinaia di anni fa, dove sono sicuro ci siamo incontrati; posso dirlo oggi, dove sicuramente ci siamo riconosciuti. non ricordo il tuo nome, non avrei potuto dimenticare i tuoi occhi.