temperatura corporea che sale, gestione antipanico del battito cardiaco. statico, mi sento incapace di crescere come un albero incastrato tra i palazzi, senza sbocchi e spazi. un attimo prima dello svenimento, quel frammento di secondo dove il bianco degli occhi si espone, la testa si china e le ginocchia muovono il primo cedere. una sete vorace, naturalmente conseguenziale al collasso delle energie. finalmente sono disteso ed incapace di alzarmi. osservo l’acqua evaporare, la respiro per evitare che questa muoia, com’è certo che sarà. persone affacciate alla mia porta, ad aspettare che venga il tempo di fare da cornice alle mie azioni, sia mai che non sia accompagnato dalla realtà di questi luoghi. i mezzi a scandire i tempi delle mie giornate: quei quotidiani vortici pericolosi, prodotti degli stimoli che ancora non so come alla mente mi arrivano, mi obbligano ad agire. non trovo modo di schiarire quanto non può esprimersi al solo consentito muoversi. l’occhio vede più lontano di quanto sia tattile, ed ignora le sfilate organizzate da quei cervelli affamati di cose che solo apparentemente hanno senso. mi muovo con sincerità e lancio ami impossibilitati a ferire, che hanno il nobile scopo di salvare chi è incastrato in manovre deprimenti, con la presunzione certa di poterli definire tali e di offrire una soluzione che possa essere dimostrata tale, senza fraintendimenti, che talvolta, ahi noi, alcuni rifiutano. trovo consolazione nelle forme; vado alla ricerca di quelle architetture che sappiano allietare quello spirito tormentato dai troppi stimoli, dalle troppe cose, dalle troppe nausee percepite. il sentiero fresco ombroso, strada gentile quando si gode nel percorrere fine a se stesso, piuttosto che allo giungere opaco e privo di una vera e propria realizzazione liberatoria. il mio sorriso allora si esprime poco già esso consapevole delle delusioni che sono pronte dietro l’angolo a sorridermi anch’esse. non mi dico bugie e porto la mia pazienza a quei limiti maniacali, che a stento la ragione contiene garbatamente. nuoccio al massimo a me stesso e faccio il possibile per mantenere la situazione su questo livello, mi spiacerebbe molto il contrario. riempio la stanza di travi che mi aiutino a sostenermi in quei momenti in cui proprio non ce la faccio. sono tanti i giorni in cui il sentirsi soli non trova personalità che possa giovare al me stesso; sia questa mancanza fisica, sia questa mentale al momento non sembra crearmi grande differenza. è quell’abbraccio che non sentivo da anni che mi ciba di questo. è quella parola detta in quel momento, dopo le dovute riflessioni, che mi rende sicuro del concepimento finale di una soddisfazione concreta, realizzante, propositiva e, non infine, costruttiva. vorrei fare di più e più spesso, ma ci sono troppi universi tra l’incontro sincero dei nostri sguardi. non esistono filtri che non siano la nostra conoscenza; sono gli unici regali che posso fare, questi. non sono certo padrone d’altro. come non hai avuto occasione di vedere, di materiale non posseggo molto; ma questa facciamo che è un’altra storia. perciò mi dedico alla contemplazione dello sfinimento fisico, cosicchéil mio successivo fissare il vuoto sia giustificato dall’assaporazione del riposo, nel rilassamento naturale di quanto non troppo spesso è sollecitato. mi viene facilmente in mente, di questi tempi, quando un’amica mi ha confidato come lei simulava il volo, mi sorprese e affascinò, era un gioco che ora rimpiango di non poter fare, sempre chiuso tra i cementi e diverse stanze. sono sicuro che un giorno saprò soddisfare i miei tempi, ora mi devo allontanare dalle acconciature dei giovani.